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Una tripla intervista a Joe Di Falco, Natale Filice e Franco Oppini

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Una tripla intervista a Joe Di Falco, Natale Filice e Franco Oppini

franco_oppiniCosa succede quando su un palcoscenico si incontrano un autore esordiente, un regista preparato e un attore affermato?

Joe Di Falco, Natale Filice e Franco Oppini si ritrovano insieme al Teatro Tordinona per mettere in scena lo spettacolo Cantico di un Natale qualunque, liberamente ispirato al Canto di Natale di Dickens.

A conclusione della messinscena, un ironico e a tratti sentimentale riadattamento del classico di Dickens intriso di un sapiente uso di elementi attuali che ne alleggeriscono la trama, tra le congratulazioni e gli apprezzamenti positivi per la riuscita dello spettacolo, ho avuto occasione di porre qualche domanda ai tre artisti.

Joe Di Falco (l’autore) Canto di un Natale qualunque è il risultato della tua prima esperienza come autore, sei soddisfatto?
Sono molto contento, questa sera c’erano tanti amici e lo spettacolo è piaciuto molto. Ho lavorato molti anni per i grandi eventi e grazie a Francesco Bellomo ho scoperto anche il teatro. Ho tentato di scrivere qualcosa e spero possa esserci un seguito.

 

Come è nata l’idea di ispirarsi a Dickens?

È nata da un episodio molto strano. Un giorno mentre decidevo quali libri portare nella mia nuova casa, mi cadde dalle mani un libricino, era  Canto di Natale di Dickens, che mi aveva regalato mia madre, da poco scomparsa. Anche se lo conoscevo bene decisi di rileggerlo e poiché sono una  persona che esorcizza molto, ho chiesto scusa a Dickens e mi sono permesso di stravolgere un po’ la storia. Hai messo dentro un po’ di attualità: la cadenza napoletana di uno degli angeli, la transessualità, la politica… Ho voluto sfrondare il testo originale da tutti quegli aspetti che, a mio parere, risultavano un po’ pesanti e fuori luogo rispetto al presente e dare invece risalto alla grottesca quotidianità a cui ci siamo abituati.  

Natale Filice (il regista) A livello registico, tutti questi elementi attuali inseriti all’interno di un testo classico, hanno generato delle difficoltà stilistiche o sceniche?
Quando hai a che fare con la riscrittura di un classico puoi trovarti di fronte o una riscrittura in chiave di innovazione, un riadeguamento rispetto alla contemporaneità e questa in parte lo è, oppure puoi avere un’aberrazione verso il tragico, il grottesco e il comico. L’operazione che ha fatto Joe Di Falco con questo testo, rientra un po’ in tutte e due le sfere. Dal punto di vista stilistico la difficoltà principale è coniugare l’attualità e il grottesco. Per l’attualità devi creare una parete che ti difenda dalla pressione semantica che il pubblico ha rispetto al cabaret e che influisce sugli attori rendendoli molto autonomi e alla ricerca continua del contatto diretto con il pubblico, cambiando inevitabilmente lo stile; dal punto di vista del grottesco lo spettatore si aspetta la trasposizione di una forma precedente quindi se si sviluppa con lo stile dell’opera originaria, non si riesce ad utilizzare in maniera virtuosa  l’intervallo che passa fra il classico e la riscrittura. Il grottesco può aiutare nella rivitalizzazione del classico, ma se il grottesco si sovrappone con l’attualità il danno può essere grave perché si rischia di uscire troppo spesso dalla trama.

 

Per un regista dunque, è più facile mettere in scena un testo classico che puntare su una rappresentazione più moderna?

Dipende dal classico e dal contemporaneo che si scelgono. Se prendiamo Shakespeare e Beckett le difficoltà sono diverse, ma hanno lo stesso peso, diverso è in caso della riscrittura.

Tu non ti occupi soltanto di prosa, hai diretto molti spettacoli lirici, a chi ti ispiri?
Nella lirica il regista che mi interessa di più è Peter Sellars, mentre per la prosa prediligo registi come Vasiliev, Nekrosius, tutta quell’area russa che lavora sull’azione fisica non sul movimento, sulla deambulazione applicata agli oggetti.

Progetti futuri?
Ci sono in programma per la fine di quest’anno e per il prossimo diverse opere liriche sia in Italia che all’estero.  

Franco Oppini (l’attore) Ritorniamo a Canto di un Natale qualunque, lei interpreta il protagonista, il celebre Scrooge, che cosa le è piaciuto di questo personaggio e cosa ha di simile a lei?
È un burbero buono, benefico. È un personaggio alla Walter Matthau, alla Dottor House, un burbero che tuona sempre ma che sotto sotto, incrostato nella sua solitudine, ha una luce che qui viene fuori grazie al miracolo. Il testo abbastanza pimpante con le battute che non cercano la risata, dà al personaggio diverse sfaccettature che lo allontanano dalla pura comicità. Ultimamente, forse perché la mia faccia invecchiando è diventata più intensa, più profonda, ho interpretato personaggi più drammatici; l’ultimo in tv per la miniserie Il falco e la colomba è quello del padre della protagonista che muore di dolore.

 

Come si è trovato a far parte di questa compagnia di giovanissimi?

Ho detto di si a questo spettacolo per motivi sentimentali. Ho conosciuto Joe Di Falco qualche tempo fa, all’epoca mi disse che stava provando a mettere su uno spettacolo. Quando sono andato a trovarlo, i ragazzi che mi hanno visto mi hanno detto “sarebbe bello se ci fosse lei”. Allora mi sono ricordato di quando ero giovane io e di quanto avrei voluto poter incontrare i grandi, quelli arrivati..e allora ho deciso di appoggiarli e di far cadere questo mito che i giovani non possono lavorare con uno che ha dell’esperienza. Sono ragazzi che hanno voglia di fare, tanto entusiasmo, ma spesso sono costretti a fare altri lavori, e allora non è giusto non dargli una possibilità. C’è bisogno di persone come lei. Purtroppo siamo in pochi, e siamo sempre meno, però ci siamo e cerchiamo di resistere. Lei ha fatto cinema, televisione e teatro… Ho avuto anche una compagnia di operetta per due anni.

Qual è la dimensione in cui si trova più a suo agio?
Sicuramente in Italia il teatro, l’unico baluardo di una certa professionalità. Il cinema italiano, è ancora il cinema di Natale, senza nulla avere contro questo genere che è sempre stato un genere preciso, ma quando rimane solo quello, allora il teatro resta un’isola felice, anche se con grandi difficoltà.

 

Qual è il primissimo ricordo della sua carriera di attore?

Ricordo quando cominciavo a fare i primi passi nel cabaret, a inventarmi delle cose. Sono partito da Brecht… e poi, ricordo quando con I Gatti di Vicolo Miracoli ci riunivamo nelle piazze di Verona a suonare e inventarci sketch e improvvisamente ci siamo accorti che la gente ci stava, ci seguiva. Questo divertirsi e divertire è sempre stato un po’ la cifra della mia vita. Se non mi diverto questo mestiere non ha più ragione di essere.

 

Se potesse dare un consiglio ad un giovane attore, cosa gli direbbe?

Mi capita spesso durante gli stage nelle scuole di dare dei consigli ai giovani attori, quello che mi sento di dire è che se siete molto giovani dovete andare all’estero, in America, negli Stati Uniti, dov’è più facile mantenersi e rischiare di poter entrare in un giro molto grande, a diciannove, venti anni si può fare. In Italia oltre ad esserci poco spazio per i giovani, c’è l’obbligo di essere professionale e professionista e se anche chi fa il Grande Fratello ha grandi possibilità, spesso diventa un disadattato. Quando arriva il colpo di fortuna se non sei preparato non lo sai sfruttare.

Un’ultima domanda prima di salutarla, a lei piace il Natale?
Mi piacerebbe se non fosse ridotto, un po’ come dice il personaggio, solo a “stupidaggini per spillare soldi alla gente”. Sarebbe bello tornare al significato storico, civile e religioso abbandonando il lato più puramente consumistico, è nato un uomo che ha rivoluzionato la storia, e la sua nascita non c’entra nulla con la corsa ai regali o le palle dell’albero di Natale. L’auspicio che posso fare è che ognuno possa di ritrovare il proprio Natale.

di Maria Teresa Pasceri