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L’horror che fa pendant con il realismo

poeta_maledizioneQuando passando per Baudelaire e Poe si scopre che la realtà supera la fantasia

Novembre sarà anche il mese dei morti, ma non è il mio mese. Un giovane non può ispirarsi per vivere ad un mese in cui gemmea l’aria e il sole è così chiaro, e dove si ricercano gli albicocchi in fiore e del prunalbo l’odorino amaro si avverte nel cuore!

No, niente affatto, Pascoli si sbagliava: i suoi erano sentimenti distorti da una visione che attanagliava ormai il vivere di un poeta che altri sentimenti non nutriva se non quelli domestici e familiari, delle sorelle e del cane. Un giovane per vivere deve ispirarsi a maggio, alla primavera, al risveglio dei sensi; oppure ad agosto, ad un mese caldo, all’estate alcyonia che il d’Annunzio volle ritratte come sintesi di tutti i sensi e di tutta la vitalità concepibile. Eppure, senza che il pensiero ci venga incontro con troppa arroganza, anche Novembre ha il suo valore. Non è il mio mese, ma rimane un mese comunque della nostra vita. Un fascino misterioso, anche criptico direi, possiede Novembre, che non fa pensare – stavolta giustamente – solo all’estate fredda dei morti, bensì a qualcosa di enigmatico, di oscuro, di sibillino, se non quasi di terribile, attraverso un carico di tensione nel freddo che ci viene incontro. Un inverno del cuore di deandreiana memoria, in cui sale la nebbia sui prati bianchi, dorme il cipresso nei camposanti, e un campanile che non sembra vero segna il confine fra la terra e il cielo. Nella tensione di una improvvisa rivelazione, si può benissimo affermare che lì dove il caldo ci tormenta, il freddo viene prima ad alleviarci dall’afa e poi a intorpidire tutto il corpo. Novembre è un mese in cui il cuore davvero si ferma! Dico questo perché, accettando la proposta dal nostro direttore di «Eclipse» (nome per una rivista altrettanto enigmatico, che allude ad una eclisse o apocalisse, tanto salvifica quanto purificatrice in toto, a seconda di quello che si vuol leggere), ho pensato che l’argomento più distante da me potesse, in occasione non solo del due Novembre, ma soprattutto di Halloween (la zucca gialla che agli inglesi mette tanta paura?), tornare ad occupare i miei pensieri con una qualche spiccata ragion d’essere. Il tema non è tanto Novembre e la memoria dei defunti, di Foscolo e di Pascoli, ma soprattutto una straordinaria messa in onda, come se dalla letteratura si passasse al cinema, di un horror in cui non il sangue, ma la tensione poematica di una verità colpisse i sensi fino ad ora nascosti o mai rivelati. Quello horror è un genere che ho seguito fino a quindici/sedici anni, e che dopo ho tranquillamente abbandonato, relegandolo nel dimenticatoio più totale della mia mente e della mia percezione. Il senso di un tale allontanamento deriva dalla convinzione, più scenica che reale, che nulla può di fatto definirsi horror perché è la finzione stessa che impedisce che quello che definiamo horror lo sia davvero fino in fondo. Come posso aver paura di qualcosa che è finto, che non c’è, se non sulla scena di un film? Come posso temere un sangue che per primo non scorre nelle vene di chi viene ucciso? In pratica, la ragione del feticcio mi impediva di andare oltre la sua stessa ragione d’esistere, quella che fino a sedici anni mi imponeva un rispetto e una sensibilità per il genere. Ultimamente, riaffrontando il tema con un amico che in ambito universitario si è occupato di analizzare il genere horror, come un letterato può analizzare la poesia lirica o ermetica, sono giunto alla conclusione, sposando la sua tesi, ovviamente, scientifica e non solo emotiva, che il genere horror è un genere che investe per la sua riuscita «sul già noto», su ciò che di fatto conosciamo e sappiamo che può succedere o accadere. Tant’è che, pur non essendo più un estimatore del genere, rimango a riconoscere come film horror in assoluto, anche se la definizione a mio avviso rimane impropria, il celebre «The Exorcist – L’esorcista», del 1973, se la memoria non m’inganna. Un film la cui visione ho rimandato di molto nel tempo, prima di vederlo definitivamente, proprio perché ne avevo paura.

esorcista

E perché ne avevo paura? Non avrei dovuto se, giustamente, come prima affermavo, quel film è frutto comunque di una finzione su dei fatti più o meno veri, più o meno attendibili o addirittura folcloristici, per alcuni, in materia di esorcismi e di religione. Eppure ne avevo paura! Ebbene, ne avevo paura perché quel film investe su qualcosa che personalmente andavo a ritenere importante, “già noto”, come si dice, per la mia persona, soprattutto in materia di fede cattolica. Nonostante la finzione, il vomito verde e le bestemmie, le contorsioni a trecentosessanta gradi della testa della bambina posseduta, era il film che veniva verso di me e non io che andavo verso lui: questa è la paura, scoprire che una cosa che conosciamo può accadere o avverarsi. In me il genere horror si annullava nella visione scenica del film e cresceva dentro la mia sensibilità. Ecco, appunto, che il genere horror è un genere di tutto rispetto, perché ha senso e valore, anche questo ovviamente individuale, al di là della tenuta scenografica, in quanto investe su quelle che sono le nostre paure, le nostre ansie e le nostre fobie. Se un altro film, che sempre si definisce horror, non corrisponde minimamente ad una nostra paura o determinato stato di agitazione per il tema, anche se gli sventramenti o gli squartamenti sono efferati, questi non ti comunicheranno nulla, per cui torni a non aver paura su una cosa che consideri mera finzione. Ma se nei film horror tutto ciò è quasi naturale, nel senso che è più facile da trasmettere, nella scrittura la fatica si decuplica. Un conto è vedere L’esorcista, un altro è scriverlo, narrarlo. Su questa linea si può stabilire che tanto più un film dell’orrore riesce, tanto meno il libro sarà altrettanto dell’orrore; tanto più il libro sarà ben scritto, tanto meno il film riuscirà a restituirlo sulla scena. Nel passaggio qualcosa si perde. Per evitare che si perda il sale della stessa tensione, il regista deve lavorare come se fosse uno scrittore, il che è non solo più complesso ma, altrettanto, più impegnativo. Un’immagine può tenere una scena, mentre in un libro, a volte, occorre una pagina; e là dove lo scrittore scrive, il regista filma, quindi il supporto tecnico gli viene in aiuto, enormemente. Per captare questa straordinaria capacità di chi scrive, anche cose che riguardano l’horror e che io, ripeto, non leggerei mai – dammi un libro horror da leggere e ti dirò chi sei – si deve retrocede al primo dei poeti moderni che il tema ha affrontato non sentendolo come genere, ma evidenziandolo come traccia inestinguibile di cronaca e di realismo.

fiori_del_male

Mi riferisco a Charles Baudelaire, il primo poeta moderno, e ai Fiori del male, primo libro moderno che è anche un film dell’orrore. In tema di Halloween il senso è, forse, addirittura duplice, perché quello che appare come realistico, sia pur con espedienti che sono sempre della fantasia, è, di fatto, il nucleo caldo di un sentire che investe la coscienza quanto la conoscenza effettiva del male, quindi, del reale, della morte. È uno di quei casi in cui la realtà supera la fantasia, come recita nella sua impietosa analisi del reale, in parte orrorifica e davvero nefanda, la scrittura di Chuck Palahniuk.
Baudelaire, di cui è noto tutto, tranne la sua reale ispirazione presso i giovani, nel senso che l’hashish (le canne!, per meglio intenderci), gli amori tormentati, la dissipatezza, lo sperpero dei danari, dei risparmi familiari, l’interdizione, la condanna per oscenità, sono tutte cose note ai più, perché rispondono a pieno a quell’aura di maledettismo che ad un poeta si richiede, o meglio, che i poeti maledetti hanno imposto come stile di vita, non programmato perché disperato.  Ma l’alveo da cui il poeta trae fuori la sua ispirazione è tutt’altro che maledetta: è nobile e chiara. Per Baudelaire immergersi nel mondo moderno significa entrare a far parte di tutta una serie di rituali, di enigmi, di misteri, che sono l’anticamera per mettersi in contatto con un mondo che, in definitiva, è dentro di noi più che essere fuori da noi. Baudelaire capisce che anche il male ha un fascino, che anche la ritualità, la terribilità, l’astinenza e l’eccesso producono una sorta di idiosincratica missione, uno sperma di fede, così fecondo che quando entra in contatto con l’ignoto, con ciò che di fatto mai si conosce e non che fino ad ora non ancora si è in grado di conoscere, fa scaturire quella che è la naturale predisposizione dell’uomo a vedere in ogni cosa quello che vuole e desidera vedere. Lo scopo della poesia di Baudelaire non è tanto intelligere, bensì leggere dentro ma non per far chiarezza, ma per rendere chiaro quello che è il mistero, la paura, l’agonia, lo spleen appunto. Infatti, in tema di riti e di danze, di maschere e di esorcismi, di Halloween, non va mai dimenticato che Baudelaire è il primo traduttore di Poe, di quel genio altrettanto incompreso che fu Edgar Allan il quale scrisse Il corvo e Il gatto nero – una poesia e un racconto, tanto per citarne solo due, tra i più famosi – che hanno stabilito che il mistero, l’angoscia, il sentimento acuto del terrore e della paura, dell’enigma e della sofferenza è incluso dentro le cose che più ci rallegrano e ci soddisfano.

Edgar_Allan_Poe

Il mistero è la chiave di lettura della bellezza quando raggiunge vette che non ipotizzavamo potessero esistere; il suo senso è celato all’interno di un passaggio che è tanto naturale quanto imprevisto, sempre, per cui una cosa che prima ci affascinava, adesso ci tormenta, come se le passioni ad un certo punto meritassero d’essere uccise, prima che – come Oscar Wilde sostiene – le passioni uccidano noi. Dentro la paura e il mistero c’è prima la passione, la naturale predisposizione ad amare quello che poi ci fa dispiacere. Niente ripaga il tradimento della bellezza, ma le conseguenze assumono una valenza misterica che consentono a quella bellezza d’essere dimenticata, cancellata a favore dell’orrore, del panico, del dolore. Dentro la nozione letteraria dei Fiori del male è custodito questo segreto delle cose, una costante traccia di relazione con l’ignoto che capovolge i valori e permette a Satana di diventare Dio, e di recriminare a Dio di essere il vero Satana. Tant’è che le sue lodi, le sue litanie, Baudelaire le scriverà a Satana e non a Dio. L’era moderna, con la poesia francese, si apre sotto il segno del mistero, del simbolismo, dell’occulto, del dolore e dell’omicidio. In sintesi, sotto il segno del male. Di un male che non è fantasmagorico, bensì realistico. Anche lì dove è evidente il sogno, la metamorfosi dell’onirico, di fatto, se non tangibile, quella realtà descritta non come cosa che può accadere davvero, è, in ogni caso, una realtà frutto di una pulsione interiore, di un dramma etico che si esprime in totale simbiosi con il realismo. E non è una intuizione tanto peregrina o bislacca se, dalla rivoluzione industriale in poi, s’insatura dentro la coscienza dell’uomo l’assioma e la nozione secondo cui, al di là di ogni altro possibile teorema, il mondo è ormai volto alla distruzione. L’attacco alle Torri Gemelle è il segnale di una straordinaria ostinazione al male che trova il suo incipit propiziatorio proprio ne I Fiori del male di Charles Baudelaire. Il mistero, l’orrore, l’angoscia, diventano il presupposto non per indagare cose che non si conoscono, ma cose che si sanno, di cui si ha addirittura memoria perché quella memoria è figlia della realtà che ci circonda. Quando Baudelaire scrive e racconta quello che ha visto (carcasse di animali, donne-vampiro, omicidi efferati, nebbie spesse come muri gravare su Parigi) altro non ci dice che il senso dello smarrimento non è affatto qualcosa di surreale, ma di perfettamente reale. Ce lo dice Baudelaire, come lo stesso Poe. Questi che sono i primi due scrittori della modernità, che non inseguono Moby Dick nei mari, ma vedono la sagoma della balena di Melville definirsi come mostro dentro i volti disperati di ogni uomo e donna che vive nella grande capitale, abitanti della ingorda e impura metropoli, stabiliscono che il sentimento della paura è uno dei più nobili perché è il più capace e immediato a rivelare davvero le cose. Aver paura è come innamorarsi, e spesso l’amore, un grande amore, a cui si sa di essere molto legati, altro sentimento non può generare se non quello della perdita, quindi, il timore, la paura. Baudelaire e Poe furono maestri in questo; entrambi riuscirono a sintetizzare con abile capacità poetica i due versanti umani che da sempre si agitano nella coscienza dell’uomo: il bene e il male.

Le metamorfosi del vampiro

La donna, intanto, dalla sua bocca di fragola,
contorcendosi come un serpente sulla brace,
e modellando i seni sul ferro del busto
lasciava fluire parole impregnate di muschio;
«Ho le labbra umide e ben conosco la scienza
di perdere in un letto l’antica coscienza.
Asciugo tutte le lacrime sui miei seni trionfanti
e faccio ridere i vecchi del riso degli infanti.
Io solo, per chi mi vede nuda e senza veli,
rimpiazzo la luna, il sole, le stelle e tutto il cielo!
Sono, caro sapiente, tanto dotta in voluttà
quando soffoco un uomo nelle mie temibili braccia
o quando lascio in balia dei morsi il mio busto,
timida e libertina, e fragile e robusta,
che su quei materassi travolti e languenti
per me si dannerebbero gli angeli impotenti!»
Quando m’ebbe succhiato tutto il midollo delle ossa,
come languidamente verso di lei mi volsi
per un ultimo bacio, io non vidi al suo posto
che un otre pieno di pus, dei fianchi vischiosi!
Chiusi gli occhi nel freddo, improvviso spavento,
e quando alla luce viva li riapersi,
al mio fianco, invece della possente bambola
che sembrava aver fatto la sua provvista di sangue,
tremavano confusi pezzi di scheletro, fra loro
producendo il gemito d’una banderuola
o di qualche insegna appesa a un’asta di ferro
che il vento fa oscillare nelle notti d’inverno.

***

È questa una poesia horror? Alla pari di un film? Sicuramente, ma il taglio è ben più netto, perché mentre un film tecnicamente può non convincerci nella scena, come spesso accade, il testo poetico è invece il risultato di un incubo sicuro perché vissuto innanzitutto da chi scrive. È la parola che determina l’abuso, perché spesso lo anticipa. L’azione, invece, può essere timida, non del tutto invasiva, e quando lo è, si astrae dal contesto verbale e diventa mero impulso animalesco, forza, terrore, delirio.

roman_polanski3

Si pensi a Roman Polanski, alle sue vicende familiari, alla deportazione dei genitori e all’omicidio della moglie per mano della setta satanica capeggiata da Manson, ed ora condannato per un abuso compiuto trent’anni fa su una donna. Polanski, che è un regista, non lo è più, perché la sua vita tormentata è quella di uno scrittore, di un poeta: un poeta della pellicola. È la vita di un uomo alquanto tormentato. Come quella di Poe e di Baudelaire. Baudelaire e Polanski coincidono, hanno conoscenza attiva di cosa sia il male e di quelli che sono i suoi danni reali. La persecuzione li accomuna. Il danno, la mano del diavolo che li circuisce e li sprona a gettare fuori quello che hanno in pancia, è l’elemento di fondazione della loro poetica. La letteratura e il cinema diventano sublime arte di un impensabile oltraggio. Anche qui, senza presunzione alcuna di scombinare le carte del gioco, le regole stabilite, l’horror che s’incunea in Baudelaire altro non è che un realismo con cui fa pendant, l’esasperazione della vena romantica che conduce a riconoscere cosa diventa l’amore se troppo inseguito, se troppo osannato.

A una martire
(disegno di maestro ignoto)

In mezzo alle boccette, alle stoffe laminate,
al mobilio voluttuoso,
ai marmi, ai quadri, alle vesti profumate,
abbandonate in pieghe sontuose,

in una camera tiepida come una serra
dall’aria perniciosa e fatale,
dove i fiori moribondi nelle loro bare di vetro
esalano il sospiro finale,

un cadavere senza testa versa come un fiume,
sul guanciale inzuppato
un sangue rosso e vivo di cui la tela s’abbevera
con l’avidità d’un prato.

Simile a quelle visioni partorite dall’ombra
da cui non si staccano gli occhi,
la testa con l’ammasso oscuro della chioma
e dei gioielli barocchi,

sul comodino accanto, simile a un ranuncolo
riposa; e, di pensieri svuotato,
uno sguardo vago e bianco come il crepuscolo
sfugge dagli occhi arrovesciati.

Sul letto il tronco nudo in un abbandono totale
mostra senza pudore
il suo segreto splendore e la bellezza fatale
che da natura ebbe in dono;

una calza rosata, smerlata d’oro, sulla gamba
come un ricordo è restata;
la giarrettiera, occhio segreto fiammeggiante,
scocca uno sguardo diamantato.

La vista insolita di questo interno solitario,
e di un grande, languido ritratto – la posa
al pari degli occhi provocante – parlano
d’un amore tenebroso,

d’una felicità proibita, di strani festini
pieni di baci infernali
di cui gioiva lo sciame degli angeli cattivi
fluttuanti nelle pieghe dei tendaggi;

[…]

L’uomo vendicativo che non potesti, vivente,
malgrado tanto amore, saziare,
colmò infine, nella tua carne inerte e compiacente
l’immensità della sua brama?

Rispondi, cadavere impuro! e per te le morte trecce
sollevandoti con un braccio febbrile,
dimmi, testa di terrore, lui t’impresse
sui denti freddi il supremo addio?

Al riparo dagli scherni e dalla folla impura,
dai magistrati curiosi,
dormi in pace, dormi in pace, strana creatura
nella tua tomba misteriosa;

vaga il tuo sposo per il mondo, e la tua forma immortale
veglia accanto a lui quando dorme;
certo al pari di te lui ti sarà fedele,
costante fino alla morte.
***

Se fossimo a digiuno di cronache che narrano delitti, potremmo anche dire che questa è solo fantasia, solo finzione, invece capiamo che in alcuni rituali, come gli omicidi, i gesti che più determinano la profanazione del bene dacché l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra, sopravvive un’ancestrale ragione, una forza iniqua che annienta sia il bene che il male, a favore della sospensione. Così si comprende che nessun poeta mente davvero, come nessun film del tutto inganna.

di Domenico Donatone