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Aspirante Vedovo

Aspirante Vedovo

Aspirante Vedovo

Una commedia amara, satirica, sarcastica e di denuncia della disumanizzazione del mondo degli affari. Protagonisti Alberto Nardi (Fabio De Luigi), imprenditore con grandi progetti, e la moglie Susanna Almiraghi (Luciana Littizzetto), che meglio si destreggia nelle insidie della lotta al business.

La crisi economica, finanziaria e di valori, che ha divorato ogni forma di umanità e che ha portato l’uomo in un circolo vizioso di omicidio-suicidio pericoloso, che termina solo con il soccombere dell’individuo più debole, sopraffatto dalla logica spietata che pervade ogni rapporto sociale: homo homini lupus. Su questa linea si muove Aspirante vedovo, per la regia di Massimo Venier, con protagonisti Fabio De Luigi nei panni di Alberto Nardi, un imprenditore un po’ “sfigato”, e Luciana Littizzetto che interpreta la moglie Susanna Almiraghi, il suo “salvavita”.

È una commedia satirica e sarcastica, amara e aspra, sul fallimento di un uomo, di un imprenditore, per arrivare alla tomba dell’imprenditoria, in un climax ascendente di sempre più violenza.
In un ultimo tentativo di salvarsi, in un grido disperato e rassegnato quanto sommesso. Aspirante vedovo di quella moglie che rappresenta una dirigenza cinica e spietata, da cui si sente rifiutato.
La mimica facciale di De Luigi aiuta con l’espressione sconsolata e gli occhi tristi di chi vorrebbe essere un dominatore, ma non è cattivo abbastanza. Luciana Littizzetto lascia un Fabio (Fazio) e ne trova un altro, ma si diverte a vestire i panni di quella che più che una mogliettina perbene è una suocera inviperita e inacidita, nonostante non accetti il fallimento neppure del matrimonio: forma di orgoglio, ma anche di una volontà di non perdere quel briciolo di umanità rimasta intorno a lei e rappresentata dal marito. Dall’altra parte un moto di rabbia rimossa e repressa pervade quest’uomo per essere umiliato, denigrato, offeso e deriso dalla moglie.

Più che una lite di coppia sembra essere un diverbio acceso tra due classi sociali: l’imprenditoria e la dirigenza; la delocalizzazione della produzione che uccide le ditte italiane a conduzione familiare, che rivendicano la loro identità, origine e il proprio status, forse ormai insufficiente a garantire loro la sopravvivenza in un mondo sempre più spietato e concorrenziale. In questo l’imprenditore, in crisi e pieno di debiti, si sente solo e abbandonato dalle strutture centrali economico-finanziarie: le banche, ad esempio, e tutti gli enti che possano concedere finanziamenti per “salvarlo” (impersonificati dalla moglie); invece spesso è lasciato solo sull’orlo del baratro. In questo vedovo, rimastolo pertanto, o aspirante tale perché rifiuta questo sistema cinico e spregiudicato, clientelare ed arrivista. Per non parlare della burocrazia e dei cavilli che rallentano l’ideazione di progetti. Non si manca di citare e guardare all’Europa Unita.

Si ride poco, anzi si passano in rassegna tutti i principali problemi attuali che hanno portato il mondo allo sfacelo. Il presupposto di partenza è che “questo Paese non lo cambieremo mai”, “mancano l’ottimismo, la fiducia e c’è tanta disinformazione”. “Ci siamo concentrati (tanto, troppo) sull’avere e ci siamo dimenticati di dare” è l’appello di Susanna Almiraghi (Luciana Littizzetto) nel suo discorso pubblico. Invece si è toccato il fondo e gli imprenditori sono carne da macello per il mondo dell’alta finanza: la terra è come l’economia, va concimata con il letame per renderla più produttiva, è la denuncia shock iniziale. Si è costretti a sotterfugi per sopravvivere quando, al contrario, se c’è un giovane che ha il coraggio di rischiare e con l’ottimismo giusto si avrebbe il dovere di aiutarlo e sostenerlo: è una considerazione amara accennata lì quasi per caso tra i mille dialoghi ricchi di parole, ma affrontati sempre in maniera troppo distratta. Questo il triste scenario dipinto da un mondo degli affari spregiudicato, senza scrupoli né religione né valori o ideali, in cui, mentre si cerca di fare fuori l’altro, c’è già chi è pronto a tramare e ordire complotti alle nostre spalle. Una guerra fratricida a chi tradisce per primo. Ogni romanticismo ha lasciato il posto al cinismo. Per questo si potrebbe rileggere il titolo “Aspirante vedovo”, in “aspirante imprenditore”, “aspirante marito”, “aspirante uomo”, “aspirante truffatore” o “aspirante evasore” (un duro compromesso a cui spesso si è costretti a scendere), o “aspirante romantico”, perché altro non è che la semplice ricerca di un uomo comune della propria identità e realizzazione, soprattutto umana e sentimentale. Non sembra, però, esserci spazio per i sentimenti in questa società di indifferenza e perbenismo di convenienza, ma l’unica soluzione sembra quella di ingannare. L’ingiustizia di un mondo globale e globalizzato dove regnano ancora fame e povertà, con un divario sempre più netto e forte tra ricchi e poveri, che grida vendetta. Tanto che si potrebbe persino tradurre il titolo in “Aspirante vedova”, se non fosse che non c’è mai un tentativo da parte di Susanna di uccidere Alberto, sebbene paia rimanere sempre fredda, distaccata, insensibile nei suoi confronti, sempre razionale e mai emotiva; forse non perché non abbia e non nutra sentimenti, ma perché indotta dal lavoro a calcolare ogni evenienza e reazione: autocontrollo di un’abile stratega dell’imprenditoria che sa gestire denaro, azioni e quant’altro; e deve difendere la sua pozione, rispondendo alle aspettative che hanno su di lei, proteggendosi dal maschilismo discriminatorio della società.

Non a caso, subito dopo la proiezione del film, è stata diffusa la notizia del suicidio di Luigino D’Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si è ucciso dopo aver perso tutti i risparmi (circa 110mila euro), investiti nei bond subordinati di Banca Etruria. Si è tornato, così, a parlare del “decreto Salvabanche” e sull’urgenza, per il premier Matteo Renzi, della “riforma del sistema di credito” da parte delle banche.

di Barbara Conti