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Com’è bello far l’amore

Anche il sesso tridimensionale può far annoiare

3D o non 3D, questo è il dilemma che ha continuato ad attanagliare la cinematografia internazionale negli ultimi anni. Un quesito sempre più pressante che, partito dalle animazioni firmate Pixar e DreamWorks, ha coinvolto in questa corsa di ritorno al futuro anche il live action. Ma se il mondo fantastico di Avatar e i misteriosi ingranaggi emotivi di Hugo Cabret hanno dimostrato le possibilità della tecnica applicata alla genialità artistica, discorso completamente diverso deve essere fatto per una commedia italiana che si illude di nascondere i sempre più evidenti problemi di forma e contenuto attraverso l’impiego di un mezzo, in questo caso, assolutamente accessorio.

Simbolo della nuova e, speriamo, fugace tendenza è Com’è bello far l’amore, ultima creatura di Fausto Brizzi che, non pago di aver portato sul grande schermo ritratti generazionali tendenzialmente generici, prende momentaneamente in prestito la crisi sessuale di una coppia di quarantenni per illudersi di giocare al cineasta moderno. Il risultato è quanto di più negativamente“stupefacente” si sia ammirato fino ad oggi. Pur sorvolando sullo stile eternamente adolescenziale di una grafica più vicina al videogioco che al cinema, la tridimensionalità non sembra assolutamente nobilitare le intime preoccupazioni di una coppia borghese alle prese con la presupposta spudoratezza di un amico pornoattore. Così, dopo i primi minuti in cui intense tonalità flou si fondono con un 3D prima maniera, lo spettatore viene inesorabilmente catapultato dentro un ingranaggio narrativo che, con o senza aggiunte tecniche, manca totalmente di profondità.

Certo la leggerezza dei toni è un elemento incontestabile della commedia italiana, ma il “tocco” di Brizzi è così impercettibile da volgere verso una chiara ed eterea inconsistenza. Dalla costruzione di una trama tanto lineare quanto prevedibile, alla caratterizzazione di personaggi statici, se non superflui, tutto sembra parlare di approssimazione e superficialità. Un regno dell’inconsistenza all’interno del quale l’insolito trio formato da Fabio De Luigi, Claudia Gerini e Filippo Timi si avventura nella estenuante ripetizione di caratteri e situazioni riproposti con estenuante puntualità.

Di Manuel Fantoni