Il musulmano Cristo, terrorista, martire, sindaco, che (non)cambia la Storia
Uomini e croci. Capitano coraggioso sulla zattera di pietra di un mondo che non vuole comunicare? Jusuf, redentore di un borgo pugliese. Straniero giordano in patria italica, ha un internet point e di incroci culturali dovrebbe intendersi meglio di tutti nel paesino assolato e aspro di Mariotto. Jusuf non sa dire di no, aiuta tutti. Vive con la moglie ansiosa Maria, soggiogata dalla madre matrona speculatrice e bigotta. In mezzo a baristi spilorci, politici senza programmi, luci fulminate, parenti risentiti.
Quando il parrucchiere con “il metodo” maericano dell’actor studio deve rinunciare alla parte di Cristo nell’imminente Via Crucis e Jusuf ne prende il posto nella processione, la comunità si sconvolge. Può un musulmano, giordano o marocchino che sia, indossare il ruolo del Salvatore? Sbigottiti e retrogradi i compaesani, ignari di “che differenza” faccia essere davvero una comunità, figli di quella Puglia crogiolo di culture che non ri-conosce le proprie stesse radici, additano Jusuf e lo isolano, perseguitano, fraintendono.
Ameluk. Esordio alla regia cinematografica dell’attore Mimmo Mancini, qui anche coprotagonista nelle vesti sempre inappuntate e sarcastiche del candidato sindaco faccendiere, corrotto e corroso, da gelosie, tracotanza e idiozie miste. Una tragicomica televisiva carrellata di disastri culturali.
Jusuf e il suo calvario non voluto. Sotto i riflettori di malelingue e tv locali e nazionali, inondato di soprusi. Da Cristo a fuggiasco, da clandestino armato a candidato sindaco, preda di partiti e interessi vacui. Come il suo credo interiore, vacillante e solitario. Ad asserragliare la coscienza di Jusuf, il candidato sindaco post fascista Mezzasoma (presto mezzosangue) in fermento elettorale e mediatico iper razzista, contro i sinistrorsi “compagni” del centro sociale e la loro terapia antistress (calce e martello e “prezzemolo” nostrano). Poi il parroco locale che tenta di convertire il popolo alla tolleranza, l’ebreo presidente dell’associazione per la salvaguardia dei congiuntivi, la famiglia “araba” arroccata nel proprio locale odoroso di kebab e di paura. Per non citare la moglie arrivista e la guida turistica idealista.
La crisi di identità infilza o meglio sbrana le terga ignoranti e le menti ottuse, ognuno rapito dal proprio progetto capitalistico, dal proprio angolo di erbacea indipendenza, dal sotterraneo infantile dipinto di sogni irrealizzati, dalla chiacchiera confusa del popolo, dal sapore delle cipolle autoctone, dal pianto del figlio meticcio. Ognuno chiuso all’altro, prono, nella sopravvivenza quotidiana, ad un egoismo ancestrale, rodato da centinaia di anni di lotte, occupazioni, feudi, migrazioni e accumulati reciproci terrori. Perchè il terrore seda gli animi, ispessisce le corazze e separa in atomi astiosi e manipolabili, vendibili, ricattabili, una società altrimenti più forte e paradossalmente più gestibile.
Finché, una tantum, un’emergenza scaglia la “prima pietra” e fa crescere il bernoccolo della curosità e l’empatia per l’altro. Il dubbio che convivere fuori dai silenzi mescolandosi in libertà possa appianare assurdi livori e dare ossigeno alla routine più spicciola.
Ma come si mette in pratica la “convivialità delle differenze?” Con un ex presunto terrorista, divenuto consigliere, giordano e musulmano, di minoranza in minoranza, a caccia del faticoso valore del dialogo?
Ameluk, soprannome, nostalgica etichetta, figurina per un messaggio (più latitante che) latente di integrazione. Un film che cerca collocazione, tra commedia dell’arte e pasticcio da melting pot tricolore, dialoghi da buon cabaret e comicità a grana grossa.
Ameluk, amarcord infantile e memoria collettiva per l’attore-autore Mimmo Mancini, richiama il nome del venditore ambulante di pastiglie contro il fumo che viaggiava tra Puglia e Basilicata negli anni ’60 occupando il folklore locale e diventando retaggio di modernariato tradizionale per Mancini e la sua arringa cine-elettorale anti xenofoba.
Eppure Ameluk, il titolo quanto l’opera intera, illumina altro personaggio. Non esprime semplicemente assonanza ironica con il termine “mamelucco”, dall’arabo mamlūk (“schiavo comperato”), come ha ammesso Mancini medesimo. Del mamelucco sembra soprattutto conservare il senso spregiativo, “scimunito, fesso, inconcludente”, a causa della fragilità del protagonista, inconsistente, forse assente alla trama come a se stesso. Certo espediente e simbolo, ma menomo di “motivazioni” personali e culturali, fantasma senza struttura.
Jusuf alias Ameluk si trasforma in schiavo di se stesso (e torniamo alla prima accezione del vocabolo arabo) e dei pregiudizi mercantili di turno, compresa la “resurrezione” dell’epilogo. Ameluk vira allora in una debordante parata di macchiette. Privo del surrealismo colorito di un Vincenzo Salemme o della poetica di terra e sangue di un Pasquale Scimeca, Mancini dà vita ad un circo grottesco in un Sud attonito e carnevalesco, ma non mostra il profondo “sud” delle nostre anime e di quella “croce” che ci rende ancora pellegrini ignoranti.
AMELUK
Regia Mimmo Mancini
Con Mehdi Mahdloo Torkaman, Mimmo Mancini, Claudio Lerro, Francesca Giaccari, Dante Marmone, Roberto Nobile, Cosimo Cinieri, Paolo Sassanelli, Michele Di Virgilio, Maurizio De la Vallée, Andrea Leonetti, Teodosio Barresi, Nadia Kibout, Miloud Mourad Benamara, Luigi Angiuli, Pascal Zullino, Hedy Krissane, Tiziana Schiavarelli, Massimo Bagnasco, Helena Converso, Alberto Testone e Rosanna Banfi
Soggetto e Sceneggiatura Mimmo Mancini e Carlo Dellonte
Direttore della fotografia Marcello Montarsi
Montaggio Luciana Pandolfelli
Scenografia Biagio Fersini
Musiche Livio Minafra
Prodotto da Luigi Ricci, Andrea Mattei, Barbara Sperindei
Con il sostegno di Rm Consulting Srl e Barbara Sperindei, MIBACT Direzione generale per il Cinema, Apulia Film Commission
Italia 2014
Durata 98′
Distribuito da Flavia Entertainment in collaborazione con Draka Distribution
In sala dal 9 aprile 2015
di Sarah Panatta