Sconcerto e smarrimento con Alpis di Lanthimos
In lizza per il Leone d’Oro è il film greco Alpis di Yorghos Lanthimos, un lavoro di matrice esistenzialista disturbante che non riesce a brillare nella dimensione riflessiva a cui avrebbe potuto o voluto tendere. Un quartetto formato da una ginnasta, il suo allenatore, un’infermiera e un paramedico avvia un’impresa tanto bizzarra quanto scioccante di nome Alpis. Il servizio a pagamento offerto è di vestire i panni di un defunto dietro ingaggio dei famigliari. Il tema del gioco con la morte – a cui va riconosciuta grande originalità e audacia – ha dell’orrorifico difficile da mandare giù, e lo scarno registro linguistico della regia non fa altro che alimentare e sostenere il macabro vuoto delle vite osservate. La macchina si muove a mano per seguire con aderenza alla realtà l’attività dei quattro tetri operatori che giocano a far rivivere i morti lasciandosi dirigere nelle scene richieste dai parenti come fossero burattini. Il modo di curare le riprese conferma la necessità di mostrare da vicino e senza filtri la brutalità della recita che i singolari giocatori di ruolo non sembrano avvertire. L’infermiera è la mente più fragile del gruppo, quella che ha superato i confini imposti dall’agenzia e che, nell’interpretazione delle vite altrui, ha completamente perso di vista la sua coscienza. La vediamo disintegrarsi e ricomporsi con frammenti che non le appartengono, totalmente smarrita nel vuoto esistenziale che la risucchia e penosamente drammatica nel tentativo di riportare in vita la madre sostituendosi a lei nel rapporto col padre.
Il lavoro di Lanthimos mette da parte la narrazione classica, l’origine della disperazione, il ricorso ad una sofisticazione linguistica per dare luce alla rarefazione del discorso affrontato. L’ambientazione con cui si scontra è cupa e straniante, i protagonisti sono corpi gelidi votati al fallimento, alle prese con un’attività finzionale che nella meccanicità dell’interpretazione li svuota fino allo stremo. Senza spiegare niente, Lanthimos entra nell’oscuro mondo della morte dalla porta della fascinazione di cui, forse per sopperire a un’assenza affettiva, l’infermiera resta vittima. In una parte poco sviluppata ma non per questo meno ossessiva appare Ariane Labed, la bella vincitrice della Coppa Volpi a Venezia 2010 con Attenberg che in questo film veste i panni della ginnasta assorbita dalla sua performance.
Dopo il successo di Dogtooth, premiato a Cannes in Un certain regard, il regista greco torna sul grande schermo pieno di inquietudine e assurdità per affidare allo spettatore un dramma nero tendente a respingere ogni tentativo di avvicinamento facile.
di Francesca Vantaggiato