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Festival del cinema di Venezia 2011: recensione di Cime Tempestose

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Festival del cinema di Venezia 2011: recensione di Cime Tempestose

Al Festival soffia il vento di Cime Tempestose. La regista Andrea Arnold presenta in Concorso il suo Heathcliff nero

Il Lido si è svegliato al suono battente di un vento di burrasca e non poteva essere altrimenti, visto la presentazione in Concorso di una nuova versione di Cime Tempestose (Wutering Heights) diretto dall’inglese Andrea Arnold ( Fish Tank). Opera unica di Emily Bronte e pubblicato per la prima volta nel 1847 sotto lo pseudonimo di Ellis Bell, il romanzo non è solamente diventato un caposaldo della tradizione letteraria britannica ma anche una tra le vicende più rappresentate dal cinema e dalla televisione. Negli anni la tormentata storia d’amore tra Heathcliff e la sua Chaterine ha conquistato l’attenzione di molti registi per la furiosa passione espressa e per un disperato sentimento d’impotenza che, estrapolati dai leziosi particolari sociali di un mondo di metà ottocento, ha tramandato la forza di un sentimento dirompente in vita come nella morte. Così, dal film diretto da William Wyler nel 1939 con un giovane Laurence Olivier nei panni dell’ombroso innamorato, alla versione di Robert Fuest del 1970 fino allo sceneggiato televisivo del 1956 interpretato da Massimo Girotti e Annamaria Ferrero i due protagonisti, consumati dal rancore e dal rimpianto, hanno continuato a rinascere dalle ceneri della loro sofferenza. Da questa tradizione cinematografica prende l’avvio anche il racconto della Arnold ma, nonostante la quasi mitologica natura della materia trattata, la regista britannica si pone di fronte alla necessità di rintracciare una cifra personale nello stile come nell’interpretazione. Un’esigenza da cui nasce l’espansione attribuita all’evoluzione di un amore adolescenziale e la scelta di utilizzare l’ambiente più attraverso i suoni che non tramite la rappresentazione fotografica. Utilizzando una tecnica di ripresa in 4:3 la selvaggia brughiera viene catturata nei piccoli particolari cedendo così il passo alla forza purificatrice del vento, alla violenza della pioggia e all’insistente richiamo di un ramo battuto dalle intemperie. All’interno di queste sonorità ambientali i due protagonisti vengono inseguiti, quasi braccati costantemente dalla telecamera che, attraverso gli sguardi e la definizione corporea, racconta il nascere di un sentimento liberandosi totalmente dalla verbosità letteraria. Un’enfasi emotiva, dunque, costruita attentamente nella prima parte ma che non trova conferma e soddisfazione verso l’epilogo della tragedia. In questo modo, sostituiti i giovanissimi Shannon Beer e Solomon Glave, al loro debutto cinematografico, con gli adulti Kaya Scodelario e James Howson, la vicenda perde gradualmente d’intensità non mantenendo assolutamente le promesse fatte. L’amore adolescenziale, la passione inespressa non viene giustificata in alcun modo da due personaggi mai completamente evoluti nell’eccezione negativa dei propri sentimenti, concedendo a Kathy un barlume di capricciosa gelosia e ad Heathcliff il “moro” solo una moderata necessità di distruzione.

di Tiziana Morganti