Guarire dalla depressione. Alcuni lo fanno attraverso la scrittura
Chi ne soffre, fa fatica ad ammetterlo. Eppure, secondo l’Oms, si tratterebbe della più diffusa causa di disabilità al mondo. E solo in Italia, a pagarne il prezzo, sarebbero cinque milioni di persone ogni anno. Soprattutto donne, e soprattutto al Sud. Ma la depressione ha mille volti, e raramente si presenta come tale. Quando, nel 1964, Giuseppe Berto pubblica “Il male oscuro” (Bur, 2006), l’argomento è ancora inesplorato. Chi ne parla, lo fa allora con la caparbietà e l’incoscienza del novizio. Anche se Berto, all’epoca, non è affatto uno scrittore alle prime armi. Presente sulla scena letteraria italiana da ormai quasi vent’anni tra alti e bassi, dovuti proprio alla malattia, il suo manoscritto incontra il rifiuto di almeno un paio editori prima di vedere definitivamente le stampe.
Ma cosa contiene quel diario di così innovativo? Oggi non esiteremmo a definirlo una non-fiction novel, intriso com’è di autobiografismo, senza però che di questo assorba le pericolose derivazioni personali. Un compendio, a tratti asciutto, a tratti ironico, sul male di esistere. C’è una stanza, che è quella dell’analisi, e c’è un analista, Nicola Perrotti. Anche se non viene mai rivelato il nome. E poi c’è un uomo, incapace di redimersi dalle complicazioni di un’infanzia maledettamente segnata. Innanzi tutto da un padre, che è il più archetipico dei padri possibili, oppressivo, ingombrante e intransigente. La sua morte, in seguito a un cancro, diviene il punto da cui ripartire, riannodando i fili di una vita duramente compromessa. Quel libro, a lungo dimenticato, anche se nel 1989 Monicelli vi trasse ispirazione per un film dal titolo omonimo “Il male oscuro“, racconta, meglio di qualunque manuale di psichiatria, cosa sia il “male oscuro”. Di come le depressioni non siano tutte uguali. Alcune iniziano presto, sin dall’infanzia. Ma altre nascono dopo un lutto, o una perdita improvvisa, e non se ne vanno più via. Come è accaduto a Berto, che, in quell’ingorgo di sentimenti repressi, ha scoperto una condizione quasi universale dell’esistere. Ma è capitato anche, in tempi recenti, a Matt Haig, autore di “Ragioni per continuare a vivere. La storia vera della mia depressione e di come ne sono uscito” (Ponte alle grazie, 2015). Memoriale coraggioso di un uomo che, combatte, dall’età di ventiquattro anni, contro la depressione. E che ne è uscito miracolosamente illeso, grazie al potere dei libri. Prolifico autore di romanzi, in quel senso ineliminabile di colpa, misto a insoddisfazione, ha tratto la forza necessaria per continuare a scrivere. Ma, soprattutto, ha avuto la sfacciataggine di raccontare la malattia così com’è, senza filtri, o censure. Del resto, numerose ricerche scientifiche indicano nella scrittura espressiva la via per risanare un ego sopraffatto da ansie e angosce. Quando, perciò, nel 2001, Andrew Solomon, psichiatra ed editorialista del Newyorker, all’apice del successo, decise di dare voce alla sua depressione nel libro “Il demone di mezzogiorno” (Mondadori, 2014), la risonanza è immediata. Non tanto per le teorie sull’origine della malattia, che pure vi sono contenute, ma per aver reso quel viaggio, attraverso la sofferenza personale, un indimenticabile scorcio di vita. E, si sa, parlarne è già un po’ guarire.
di Michela Carrara