La mattina del 30 novembre 1946, in un appartamento…
Un amore profondo è quello che lega la giovane Rina Fort all’imprenditore Giuseppe Ricciardi. Lei, al contrario di quanto il suo nome prometta, non è una donna forte, anche se fa di tutto per apparire tale. Contadina friulana, si trasferisce a Milano per lavoro nella casa della sorella. E qui si costruisce una nuova vita, che, però, guarda caso, somiglia tanto alla precedente. Nel paese da cui proviene ha lasciato dietro di sé una serie interminabile di disgrazie. Prima il padre. Caduto in un crepaccio davanti ai suoi occhi increduli di bambina. Poi il fidanzato. Morto all’improvviso a causa di un tumore. Mentre lei scopre, suo malgrado, di non poter avere figli. Non basta: il destino si accanisce ancora. Sposata a un compaesano, l’indomani delle nozze l’uomo perde la testa in un raptus di follia. Verrà internato in un manicomio, da cui non uscirà più. A questo punto per Rina non c’è altra soluzione che andarsene, volare via, emigrare. A Milano trova impiego in un negozio di tessili, dove conosce il Ricciardi. Lui è il proprietario dell’impresa, un siciliano che, giù, nell’isola “tiene” moglie e figli. Di questo, però, non fa cenno a Rina.
È il 1945. I due amanti sono il ritratto della felicità. Anche se gira voce che l’uomo sia un donnaiolo impenitente. Peccato che a Rina non importi. Quando viene a sapere che il fidanzato ha già famiglia, lei ci scherza su. D’altro canto è suo il merito se il negozio di via Porta Tenca, perennemente sull’orlo della bancarotta, in quel periodo raddoppia gli incassi. L’idillio, però, dura poco. Non passa molto tempo prima che la signora Ricciardi, spinta da un sospetto, insieme ai tre bambini, raggiunga il marito a Milano. La povera Rina viene licenziata in tronco, per poi essere spedita dall’amante a lavorare in una pasticceria vicina. I due restano uniti, tuttavia, in una storia di litigi e improbabili riappacificazioni, un vero inferno sentimentale. Fino al punto di non ritorno.
La mattina del 30 novembre 1946, in un appartamento in via san Gregorio a Milano, al numero civico 40, vengono ritrovati i corpi di una donna e dei suoi tre figli, orribilmente massacrati sotto i colpi di una spranga di ferro. La donna si chiama Franca Pappalardo, ed è la moglie di Giuseppe Ricciardi. Lui è fuori per lavoro. Dall’appartamento sono stati curiosamente prelevati alcuni assegni, forse per simulare una rapina finita male. Ma all’ipotesi del furto non crede nessuno. I sospetti si concentrano tutti su Rina Fort, l’amante del Ricciardi. A provare che si tratti di un delitto passionale, sulla scena del crimine viene rinvenuta una foto stracciata. È quella di Pippo Ricciardi e Franca Pappalardo insieme, il giorno delle nozze. Dopo diciotto ore d’interrogatorio, in cui la Fort dichiarerà di aver subito ogni genere di sevizia, giungerà una prima ammissione di colpa. Subito ritrattata in un secondo interrogatorio. Fino a ben sette versioni differenti dei fatti. Alcune delle quali chiamano in causa dei complici. È così che inizia uno fra i più noti casi mediatici in Italia, capace di calamitare l’attenzione di giornalisti e fotografi.
Il 10 gennaio del 1950 s’inaugura il processo a Rina Fort. A seguirlo, tra gli altri, è Dino Buzzati, all’epoca cronista per «Il Nuovo Corriere della Sera» (“Cronache nere”, Theoria, 1989). La donna, soprannominata la belva di via San Gregorio, paga una colpa antica, quella della scalata sociale che si tramuta in tragedia. Senza possibilità d’appello.
Il perito del tribunale non ravvisò in lei alcun segno di squilibrio psichico. Rina fu quindi condannata in primo e in secondo grado all’ergastolo, che scontò fino al 1975, anno in cui le venne concessa la grazia per buona condotta. A Firenze, dove visse ancora a lungo, cambiò il suo nome in quello di Caterina Benedet.
Molti dubbi però permangono sulla vicenda: perché sulla scena del delitto furono ritrovati non due, ma tre bicchierini sporchi di liquore? Chi era il terzo adulto presente la sera dell’omicidio in quella casa? E perché la Fort non smise di dichiararsi innocente, arrivando, più volte, ad affermare di essere stata drogata contro la sua stessa volontà?
A lei lo scrittore Vittorio Orsenigo dedica un libro, “Rina ne uccide quattro” (Aliberti Editore, 2009), e la immagina reclusa nel manicomio giudiziario di Perugia. Come se le cose fossero andate diversamente e le fosse stata riconosciuta, in effetti, l’infermità psichica. E quello spazio le servisse, allora, per raccontare. Di un giorno qualsiasi di novembre, in cui, impugnata una sbarra nella borsa nera, decretò per sempre il suo destino. E mai il male sembrò intriso di una così sconcertante ovvietà.
di Michela Carrara