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Roma Fiction Fest 2011: un incredibile Nicolai Lilin ha diretto la sua ouverture all’innovativa serie Combat Hospital

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Roma Fiction Fest 2011: un incredibile Nicolai Lilin ha diretto la sua ouverture all’innovativa serie Combat Hospital

La devastante sindrome PTSD svelata dalla voce sincera di un autore geniale e dalle luci di una frenetica fiction “da campo”

PTSD. Sindrome da trauma da combattimento. Ovvero perdita totale del contatto con la realtà sensibile, panico e desiderio di suicidio quali inseparabili compagni di insonnia, incosciente delirio che devasta la mente e attenta all’anima, che condanna ad un inferno interiore infinito, indelebile. Sparati oltre “il limite”. Giovanissimi spediti per interminabili mesi da un teatro di guerra all’altro, dove la violenza è una paradossale coazione istintuale alla sopravvivenza. I soldati, anche volontariamente assoldati da una difesa della patria che è inevitabilmente guerra preventiva la cui unica strategia è la tabula rasa, al ritorno rifiutano la società e da essa sono respinti. Lo scrittore migrante, russo-italiano, rivelazione Einaudi, Nicolai Lilin è transitato nel limbo, nella condizione esistenziale, annullante dello stop loss. Lo ha raccontato in un’intervista evento (non avvedutamente confinata in un orario pomeridiano asfittico per dar spazio ad “altre” anteprime) fisicamente “da brivido”. La premiata ed esperta giornalista televisiva e documentarista Monica Maggioni ha coinvolto con parca eleganza un disarmante Lilin in una confessione dialogata cruda, lacerante, inaspettatamente ironica, orrorifica, spietatamente sincera, che ha visibilmente spiazzato e interessato il pubblico. Già autore di Educazione siberiana e di Caduta libera, Lilin si prepara a chiudere la sua ideale trilogia sulla vita e la guerra in Russia con il prossimo, atteso Il respiro del buio. Raccontando gli spettacoli atroci della morte, dei cadaveri appesi agli alberi come foglie martoriate e sparsi a centinaia, come maiali sgozzati, nei villaggi, sulle strade, nelle case sventrate; delle ustioni da polvere da sparo, della follia killer, falce subdola dei soldati inghiottiti dal sangue versato; della dipendenza da alcol, da anfetamine, del lavoro di cecchino sulla montagne della Siberia. Lilin ha vissuto una guerra civile rapida ma dolorosa a 12 anni, è stato picchiato duramente da padre e nonno, è stato contaminato da racconti di saggia superstizione popolare, è stato soldato nel dipartimento antiterrorismo in Cecenia, ha strappato vite come macchina-androide. Tornato ha sperimentato una paura sottile e ingombrante, da lui stesso definita “fisiologia” del rientro post bellico, si è quasi ammazzato di vodka e alla fine, per uscire dal tunnel, ha cominciato a scrivere. A scrivere per ricordare e sanarsi. I militari degli ospedali militari sperimentano ogni giorno una simile torturante dimensione, assorbita nei respiri quotidiani. Questo racconta la fiction canadese “Combat hospital” (Canada 2010-2011, con l’ottimo Elias Koteas), presentata in anteprima europea a seguito del folgorante incontro con Lilin. Nel pilot offerto in visione al pubblico, 45’ piacevoli minuti, si dipanano gli schemi in potenza di un intenso medical drama, innovativo post-M.A.S.H., tra action veloce, doc-pop, politica militare, e soprattutto monitoraggio umano e psicologico dei soldati-dottori che affrontano le emergenze “sul campo”, le sindromi da stop loss, le paranoie, i turni impossibili, l’oscillazione febbrile tra dovere patriottico e la devozione, semplice, antiretorica, alla vita. Un’altra fiction di qualità snobbata dal clamore ma che cercherà il suo angolo di Storia.

di Sarah Panatta