Quattro storie, quattro lingue, quattro punti di vista su un conflitto dimenticato dall’Occidente
The Search è un film tosto, ma mai quanto la realtà che intende narrare. È difficile dire che il racconto sia privo di filtri, perché già nel momento in cui ci si trova davanti a uno schermo, si assiste a una mera rappresentazione degli accadimenti, il che costituisce una grande difficoltà per il regista la cui primaria volontà è che la storia del suo film, in quanto realmente accaduta, arrivi al cuore e alla mente dello spettatore e vi rimanga. L’ulteriore difficoltà in cui è incappato Michel Hazanavicius, regista e produttore del film, noto per il film premio oscar The Artist, è il dover raccontare una storia mai raccontata prima: la seconda guerra in Cecenia. Non si tratta di una guerra tanto lontana da noi, sono passati appena sedici anni, ma difficilmente se n’è sentito parlare; non è stato un conflitto mediaticamente seguito, ed è anche di questo che parla il film.
La storia incastonata sullo sfondo del conflitto si sviluppa mediante quattro personaggi: abbiamo il punto di vista russo dei vincitori, fornitoci da Kolia, ventenne appena arruolato nell’esercito, il quale ci mostra quanto un contesto di terrore e violenza possa trasformare una persona, quello delle vittime cecene, le cui vite vengono stravolte e divise, incarnato dai fratelli Hadji e Raissa e le occidentali Carole e Helen, il cui punto di vista sul conflitto è comunque differente.
Perché non un documentario? Perché non presentare un paese, un popolo, con tutta la crudezza e il “realismo” del genere? Ce lo spiega il regista stesso, il quale in un’intervista ha affermato che l’idea di un lungometraggio più che di un documentario gli è stata suggerita da un operatore di Medici Senza Frontiere del campo di rifugiati di Dabaab in Kenya, il quale gli disse <<più che di documentari, abbiamo bisogno di veri film con delle storie, così che la gente possa capire cosa succede con commozione>>. La questione delicata del riportare testimonianze reali all’interno di un’opera artistica, senza sublimare tali esperienze rendendole intangibili , è stata affrontata di petto dal regista, il quale ha saputo bilanciare fragili equilibri, mescolando fiction e realtà. Le testimonianze presenti nel film e raccolte da Carole, interpretata da una splendida Bérénice Bejo, sono tutte reali. Gli sfondi non sono della Cecenia, perché il film è stato girato in Georgia. Finzione e realtà, finzione e realtà, di pari passo ma sempre insieme. Non è facile, soprattutto perché difficile è evitare che emergano giudizi personali, eppure lasciare semplicemente che la verità, ammesso che esista, emerga da sola attraverso la pellicola non aiuta a <<capire cosa succede con commozione>>.
Con l’aiuto di una troupe e di un cast per metà francese e per metà georgiano, il regista ha creato un’opera importante, non parliamo di puro racconto, in questo lungometraggio si fa anche informazione, si dà una voce, un volto a un conflitto che l’Europa ha voluto dimenticare, senza polemiche, in un modo veramente bello e, sì, commovente.
Il cast è eccezionale, non si può davvero usare un altro termine. Partendo dalle occidentali Bejo e Bening, note al grande pubblico per le loro grandi qualità attoriali, e comprendendo tutti gli attori dell’est,splendidi nelle loro interpretazioni naturali. Il film ci ha convinto, nonostante la durata – 149 minuti tutti d’un fiato – e i sottotitoli, che a volte possono distrarre un po’ dalle immagini, ma che in questo caso risultano necessari, per via delle molteplici lingue parlate nel corso del film, forse anche emblematiche di una situazione in cui la comunicazione fra persone è falsata.
di Rosa Maria Pazienza