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Remember me

Remember_me_-_locandinaNew York  Stories

Accogliente e intellettualmente elettrizzante per Woody Allen, spietata e pericolosa per Scorsese e Carpenter, la città che non dorme mai ha intessuto con l’immaginario cinematografico un intenso rapporto di amorosi sensi, grazie al quale le sue molte anime hanno trovato voce ed espressione.

Appurato che non tutti fanno Colazione da Tiffany e che l’Empire State Building non è il posto più vicino al cielo in cui una coppia innamorata possa darsi appuntamento, New York sembra aver costruito in questi ultimi anni un rapporto controverso con alcuni cineasti, ancora condizionati dal trauma post 11 settembre. Se è piacevole e stuzzicante assistere allo spettacolo distruttivo di Cloverfield costruito dal genio folle di J.J. Abrams, diventa lesionistico e sottilmente autocelebrativo utilizzare la tragedia delle Twin Towers come spettro della fragilità e precarietà della vita umana all’interno di una vicenda che avrebbe dovuto raccontare altro. Remember me, diretto da Allen Coulter e scritto da Will Fetters, ha l’ambizioso e fallimentare proposito di coinvolgere con un  apparato drammatico/emotivo che sfocia nell’eccesso a tutti i costi. Regista e sceneggiatore, per troppo zelo o per timore di essere tacciati di superficialità, eccedono nell’organizzare una struttura narrativa in cui il crollo delle Torri sembra essere solo l’ultima e la più logica di una lunga sequenza di disgrazie più o meno inevitabili. Annunciato come una giovane storia d’amore controversa e appassionata tra il neo divo Robert Pattinson (Tyler) ed Emilie de Ravin (Ally), ex naufraga di Lost, il film si lancia in riflessioni più o meno filosofiche sul senso della morte, della perdita e della disgregazione famigliare per poi abbattere lo spettatore con il peggior epilogo mai pensato da mente umana. Allen Coulter e Will Fetters sembrano aver dimenticato che la drammaturgia segue delle regole espressive, per cui non ha alcun valore sovraccaricare di “piaghe e miserie” uno stretto nucleo di personaggi con il semplice scopo di condurli attraverso un presumibile viaggio catartico senza fine. L’unico risultato plausibile è l’immediata disaffezione o un atteggiamento di attonita incredulità. A nulla valgono gli sforzi del giovane Pattinson in versione “gioventù bruciata” per alleggerire quello che gli inglesi definirebbero “too much”.  Costantemente immortalato con o senza sigaretta, l’attore inglese è la vittima sacrificale di un percorso emotivo che lo vede impegnato in esternazioni di rabbia implosa alla James Dean, senza averne ancora lo spessore professionale, per poi essere fagocitato a sua volta dall’ineluttabile. A conti fatti, meglio tornare in quel di Forks a vestire i panni del vampiro innamorato.

di Tiziana Morganti

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Svevo Ruggeri
Svevo Ruggeri
Direttore, Editore e Proprietario di Eclipse Magazine