Torte e agnello affollano le tavole laziali, in centinaia di varianti
Cerchio della vita in effluvi di spezie. Un rito ancestrale. Forme arrotondate e calde, profumi di luce e sapori floreali. Ma anche la densità di un piacere per il palato e per la mente, che nel tempo ha assunto i contorni e le “farciture” di una tradizione volta alla rinascita tanto per lo spirito quanto per il corpo.
Simboli essenziali e sapori di campagna nei decenni strutturati da invenzioni moderne, e non sempre sovrastati dagli artifici industriali. Arriva la Pasqua e il Lazio si conferma centro dello Stivale pulsante di un’antichissima e sovente poco conosciuta mitografia del cibo, che tuttora colma le nostre tavole sotto sembianze colorate e fastose, ma sempre a ricordare, sottilmente e indirettamente, il destino intrinseco dell’uomo e del suo ciclo vitale, tra laicità e sacri valori.
Una regione costellata di “pani” rituali, commistioni tra dolce e salato, in prorompenti tavolate. Sono i pani e le torte quelle che sposano il matrimonio tra ritualità pagana e innesti successivi, tra cristianesimo e sincretismi cultural-gastronomici. Affollano ricettari e memorie familiari in tutto il territorio, con la loro lunga lievitazione e gli impasti semplici a base di grandi quantità di farina, trovando numerosi corrispettivi in tutta Italia, evoluzioni di ricette secolari, ibridi del progresso, che ha aggiunto e mescolato a quelli basilari, ingredienti “di lusso”. Curiosa la Tosa di Supino, torta a forma di bambola per le femmine e a forma di ciambella (pur sempre allegoria muliebre) per i maschi, realizzata con il classico uovo della fertilità al centro.
Si spezza il pane/torta/pizza sbattuta/pizza ricresciuta, al mattino come in ogni momento della giornata pasquale, buon auspicio per il presente e propizio richiamo alla prosperità futura. Ma anche un gesto di solidarietà e di amicizia incondizionata, come nel più celebre dei riti, l’ultima cena in cui Cristo distribuì il pane ai suoi discepoli. Amicizia e fecondità traboccano sotto forma di pizze dolci e sapide insieme.
Tra le tante, accompagnate da cioccolata o salumi o frittate ai carciofi e/o spinaci a seconda del pasto, va ricordata la Pizza Grasse di Leonessa (impastata con burro, spezie e salumi locali), ma anche la Pizza della Tuscia realizzata sia nella versione dolce odorosa di cannella, che nella sfiziosa versione al formaggio, con il suo penetrante aroma di pecorino, entrambe con una tipica forma a fungo. Che diventa conica per la pizza della Sabina, pervasa dalla morbidezza pungente del rhum unito ai canditi. Scendendo verso sud, dalla Capitale al confine con la Campania, la torta/pizza pasquale si avvicina ad una grande spessa ciambella, spesso condita con anice e liquori locali, arricchita con barocca golosità da formaggi, uova e glasse. La ricotta è predominante invece nella torta di Anagni, ingrediente millenario connesso alla natura dei territori, sin dai primi insediamenti umani dediti alla pastorizia, ricordata da storici di epoca romana come Columella o Marco Porcio Catone quale alimento principe per la civiltà contadina.
La pigna dolce, detta anche semplicemente pigna, è invece natia della provincia di Frosinone, un carnevale di agrumi e cannella, un ciambellone alto e compatto quanto un panettone e sploverato di zuccheri variopinti.
Intessuto da sempre alla Storia della tavola pasquale è infine l’immancabile agnello. Se la torta pasquale è un inno al ritorno alla vita e una danza dei sensi per favorire l’abbondanza e la salute, l’agnello, sugoso e aspro, sua controparte, celebra il corpo del Cristo e la sua resurrezione materiale e immateriale. Fulcro del pranzo laziale e romano, l'”abbacchio” è l’agnello lattante, usato in differenti tagli, intero, mezzena, spalla e coscio, costolette, testa e coratella. Pregiato per la tenerezza saporita delle sue carni, smerciato sin dalla Roma Antica e di grande diffusione nell’epoca papale, l’agnello/abbacchio venne tutelato da leggi ad hoc. Si enumerano ad oggi oltre 100 modi per preparare l’agnello, tra le molte, alla Romana (al forno con patate, vino bianco e rosmarino), alla Cacciatora (cotto al tegame, con aceto, rosmarino, aglio e salvia) o alla Scottadito (cucinato alla brace, tendenzialmente utilizzando le sole costolette, condite con rosmarino, olio, pepe e limone).
di Sarah Panatta