Un mercato alimentare in piena espansione che oltre all’aver contagiato le cucine domestiche di mezzo mondo approda anche nelle cucine dei ristoranti, all’insegna del risparmio del tempo. Ovviamente il target privilegiato per questo tipo di mercato rimane comunque il single. Le persone che vivono da sole, sono quelle che per antonomasia hanno poca voglia di cucinare, soprattutto quando si tratta di mangiare da soli.
Ecco allora che il piatto da spadellare diventa non solo una risorsa per sé, ma anche qualcosa da preparare quando s’inviterà a cena un altro single. ( ndr: Non sono supposizioni ma studi di mercato ben mirati per calibrare ricette e pubblicità accattivanti!). Nel solo centro e Nord Europa solo una casa su tre ha qualcuno che cucina tutti i giorni. Inoltre le attitudini alla gastronomia vanno scemando con la giovane età. A quanto pare più si è giovani meno si ha voglia di cucinare o di apprendere a farlo. Il ricorso ai cibi pronti si sta spalmando anche ad altre categorie “bisognose di cibi veloci”. Come genitori in carriera che hanno poco tempo da dedicare ai fornelli, persone che viaggiano molto e cambiando spesso alloggio non hanno una cucina di base che li “ispiri” alla preparazione di piatti. Ecco perché nei supermercati è un continuo fiorire di verdure già pronte, dalle insalate in busta agli spinaci surgelati, che evitano la scocciatura del lavaggio e della pulizia, dalle ricette tradizionali da scaldare in padella a quelle ethno-chic per studenti e giovani curiosi contemporanei. Negli Stati Uniti è stata coniata la parola “grazing” (brucare) per il consumo di questi pasti veloci. Un’attitudine che preoccupa un po’ i nutrizionisti perché può far perdere il ritmo naturale, già molto in bilico nella società attuale, di appetito-sazietà.
Anche se ne si parla molto solo ora, diciamo ch’è un po’ la scoperta dell’acqua calda, anzi della tiepida, visto che si tratta del –raffinamento- di una tendenza che risale ai primi passi dell’industrializzazione alimentare del XIX secolo. Tonno, pasta secca, pancarré, conserve di legumi e molti altri ancora, sono i bisnonni della roba che oggi ci “salta” in padella.
Oltre al timore sopraccitato dei nutrizionisti, permangono molti dubbi anche riguardo la salute tout-court. Additivi, cibi con provenienze sempre più difficili da rintracciare, salmonella, bse, antibiotici ed altri trattamenti, insomma, che diavolo c’è in quelle buste? Una visione un po’ rigida che ci può far riflettere sul convenience-food. D’altra parte, se pensiamo al caso della verdura, è stato scientificamente provato che lasciando verdure fresche in frigorifero (come altrove), due giorni dopo il raccolto avremo delle quantità di vitamina C drasticamente ridotte, rispetto a corrispettivi surgelati. E poi c’è il prezzo.

Un’insalata in busta costa 5-6 volte tanto rispetto ad una fresca. Se parliamo di primi piatti, i prezzi oscillano dai 5 agli 8 euro per due porzioni (scarse!).
D’altra parte, anche il salutista alimentare più convinto, colui che crede di mangiare solo roba fresca dovrà rassegnarsi, perché mangiare prodotti surgelati o semi-preparati è sempre più facile. Le maggiori aziende di catering, ma anche le mense, le caffetterie, le paninoteche ed i ristoranti, acquistano prodotti semilavorati. I grandi chef, ovviamente negano il ricorso a tali vili preparazioni per i loro piatti, ma i dubbi restano. Come ogni cosa, sarà banale dirlo, ma è così, sarebbe giusto sapersi regolare con una buona via di mezzo. Scegliere insalate in busta va bene, e magari compensare il 30- 40% di vitamina C persa con ingredienti freschi. Ci vuole buon senso. Altrimenti da bravi adepti del “grazing” diventeremo direttamente vacche. Mu!.
di Giada Martinucci