Mitologia del qualunquismo
Indro Montanelli lo definì il più grande piazzista del mondo, i francesi lo chiamarono con mal celato disprezzo il bottegaio italiano, ma è a Enzo Biagi che si deve il commento più ironico e maliziosamente intelligente su un protagonista egocentrico a tal punto da tentare anche la carriera di annunciatrice se avesse avuto solo un accenno di tette. Questa l’opinione che l’ambiente pensante ha costruito e maturato dagli anni ottanta a oggi sulla discussa e discutibile figura di Silvio Berlusconi.
Un dibattito che spacca il nostro paese in due fazioni alterne da quasi vent’anni e che sembra averci condannati a un’immobilità economica e culturale irreversibile. Ma chi è veramente Sua Emittenza? Per alcuni è il salvatore, l’unto del Signore e l’uomo della provvidenza. Per altri un truffatore doc, un pericoloso imbonitore e un intrattenitore di dubbio gusto. Nel tentativo di riassumere tutto questo Roberto Faenza e Filippo Macelloni danno la parola al diretto interessato che, almeno per una volta, sembra non parlare di se stesso in terza persona. Silvio Forever, documentario realizzato con immagini di repertorio e con l’aiuto della voce di Neri Marcorè per le dichiarazioni prive di supporto video, offre al premier un palcoscenico cui sembra anelare costantemente. Dall’infanzia a Milano all’esperienza sulle navi da crociera, senza dimenticare la nascita delle televisioni private e la finale “scesa in campo”, Berlusconi tratteggia involontariamente la sua personale mitologia rischiando, e non per la prima volta, un’overdose di ridicolo insufficiente, però, a determinare il valore del progetto. Scritto da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, entrambi inviati e editorialisti del Corriere della Sera, il documentario non svela verità nascoste, non offre un nuovo punto di osservazione e, soprattutto, rimane collocato in una terra di nessuno esposto alle lamentele dell’una e dell’altra fazione.
Ci troviamo di fronte ad un compendio giornalistico nemmeno troppo dettagliato capace di causare per puro principio la censura della Rai e del gruppo mediaset ma incapace di porre le basi di una nuova riflessione sociale. Per più di un’ora sul grande schermo scorrono le immagini di un paese indottrinato dalla televisione commerciale e inebetito dalle soap opera, mentre l’uomo che confonde gli spettatori con gli elettori e gli avvocati con i giudici medita di trasformare l’Italia in una società per azioni e di incoronarsi presidente assoluto. E ancora la presunta minaccia comunista pronta a disintegrare il suo Eldorado e la miriade di promesse infrante in diretta nazionale di cui nessuno riesce a tener più il conto. In definitiva niente di nuovo sotto il sole, nulla che non sia stato già portato agli onori delle cronache dai suoi detrattori o che sia stato difeso con cieca ostinazione dai suoi sostenitori. L’unica sensazione che rimane è una sottile tristezza per le aspettative mancate e una persistente nostalgia per un ambiente culturale che, nella brillante maleducazione di Benigni come nella pungente libertà di Luttazzi e nella sfrontata teatralità di Fo, poteva rintracciare ancora i geni forti e resistenti di un contradditorio realmente democratico.
Di Tiziana Morganti