Storie di coppie che lasciano il segno
Non poteva che essere scritto a quattro mani un libro che parla di coppie. Anche se, in questo caso, si tratta di coppie particolari, unite dal sacro vincolo dell’omicidio e della complicità.
A loro è dedicato il saggio di Giuseppe Pastore e Stefano Valbonesi, dal titolo: “In due si uccide meglio” (Edizioni XII, 2010). Affascinati entrambi, ma per ragioni diverse, dal mondo del crimine e del giallo, gli autori si cimentano nell’impresa, piuttosto rara, di attribuire il senso a eventi che, per loro stessa natura, non l’avrebbero. Crimini tanto efferati da sembrare incomprensibili, e che pongono in discussione l’esistenza di una qualche forma di raziocinio. E la parola che, in simili circostanze, ricorre più spesso, per spiegare l’inspiegabile, è follia: lucida, pianificata, sistematica, ma pur sempre follia. Una giustificazione al male che, se non ammette sconti giudiziari, perlomeno esclude i sani di mente da ogni possibile accusa. E la morale è fatta salva.
Ma si tratta di un abbaglio: basta dare un rapido sguardo ai delitti compiuti da coppie di assassini. Moglie e marito, amici, amanti, cugini, o semplicemente complici, le più celebri “associazioni a delinquere” della storia criminale non hanno nulla di geneticamente modificato nel loro Dna. Sono in tutto e per tutto uguali agli altri. S’incontrano, spesso per caso, come è successo a Henry Lee Lucas e Ottis Toole. Si scoprono simili, nella solitudine della perversione. E s’innamorano, sovente, come è accaduto ai coniugi Gallego. Ma quasi sempre è l’uomo sbagliato. O la donna sbagliata. Troppo tardi per accorgersene. A quel punto non resta che sottomettersi alla volontà di colui che, tra i due, appare il più forte, il cosiddetto induttore, e accettarne le inevitabili conseguenze. Che, nel caso di Karla Homolka, significò assistere alla morte della sorella per mano dell’uomo che amava, Paul Bernardo. I due, noti alle cronache con il nome di Ken e Barbie, a causa della straordinaria bellezza fisica, prima di allora avevano già ucciso e torturato tre ragazzine. Finché Karla non divenne, a sua volta, vittima delle sevizie di lui. Strano destino che inchioda dominatore e dominato in un diabolico patto di sangue. E chi è il più colpevole?
Per il criminologo Ruben De Luca, che ha curato la prefazione al libro di Pastore e Valbonesi, non vi sarebbero dubbi: nelle coppie di assassini seriali la “condivisione dell’aberrazione” amplifica le mostruosità di ciascuno, e funge da detonatore. E, quindi, date certe premesse, risulta assai arduo sostenere l’ipotesi della pazzia. Nessun folle si sognerebbe mai di premeditare un omicidio, occultare le prove, se necessario, e fare, della propria anima gemella, un compagno di macabri rituali.
A lungo identificato con il nome di “follia a due”, il fenomeno delle coppie di serial killer sembra contraddire puntualmente la tesi della malattia mentale. Animate da un desiderio di rivalsa nei confronti del mondo, ritenuto estraneo e minaccioso, e isolate, loro malgrado, dal contesto sociale e familiare, molte coppie criminali si ritrovano a sperimentare una complicità mai provata prima. Ma l’affiatamento che ne deriva ha la morbosa insistenza di un cupo messaggio di morte. Che stordisce, paralizza e, a tratti, fa perdere lucidità. E la follia più grande diventa allora quella di aver consegnato la propria vita nelle mani di qualcun altro. Una debolezza che costa il doppio.
di Michela Carrara