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Romacinemafest 2011: The Eye of the Storm

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Romacinemafest 2011: The Eye of the Storm

La famiglia

Se è vero che la famiglia rappresenta un collegamento con il passato di un individuo e il ponte verso il suo futuro, le possibilità per Basil e Dorothy di pretendere una vita equilibrata e affettivamente completa non potevano essere poi molte. Figli votati ad una infanzia anaffettiva all’ombra di una madre che, lontana dal considerarsi tale, ha dedicato gran parte delle proprie energie ad un costante compiacimento di se stessa , ai due fratelli non è rimasta altra alternativa che la fuga verso l’Europa per aggrapparsi ad un barlume di sopravvivenza. Eppure, tornati in Australia anni dopo al capezzale di una Elizabeth indomitamente morente, i dubbi e i segreti del passato tornano ad abitare le menti di queste creature fragili e inconsistenti. Attore londinese dal successo traballante ed principessa divorziata dalla compromessa fortuna economica, Basil e Dorothy accettano a malincuore di percorrere a ritroso i passi di un passato volutamente occultato e negato, mentre dal fondo delle sue visioni la madre odiata e subita esce di scena come l’unica sopravvissuta alla violenta tempesta della vita.

Ispirato all’omonimo romanzo di Patrick White che nel 1973 vinse il Nobel per la Letteratura, ad oggi l’unico attribuito ad uno scrittore australiano, The eye of the storm ha iniziato a far parlare di se ancor prima della sua proiezione al Festival di Roma. Però, nonostante i bookmaker lo abbiamo dato come grande favorito alla corsa al MarcAurelio d’Oro, il film diretto da Fred Schepisi e interpretato da un cast nobile come Geoffrey Rush, Charlotte Rampling e Judy Davis raccoglie consensi anche se non rende completamente onore alle aspettative create. Spietata e crudele nelle atmosfere come nel linguaggio, la famiglia guadagna immediatamente la ribalta come un insieme di rancori sottintesi e nemmeno tanto repressi che, stimolati dalla condizione quasi onirica di una matriarca morente, abbandonano il luogo dei ricordi per conquistare la potenza detonante di una implosione emotiva. Attraverso la costruzione di un triangolo “amoroso” fondato sulla delusione e il senso di colpa, Schepisi fotografa l’intimità del non sentimento che, attraverso l’egoistica dominazione di una madre seducentemente protagonista della propria esistenza, ha nutrito e cresciuto creature dalla egoistica fragilità. Sessualmente repressa lei e costantemente alla ricerca di una nuova maschera da interpretare lui, Dorothy e Basil sembrano aver trovato ristoro nell’illusione di un innalzamento sociale o nell’approvazione del pubblico ma è sufficiente intraprendere un viaggio verso casa per ritrovare la fredda attesa del passato. Attraverso l’allestimento di una casa trasformata in palcoscenico su cui far esibire un bizzarro nucleo di donne formato da un ex artista di cabaret sopravvissuta al nazismo, un’infermiera sexy ed un’altra eticamente irreprensibile, Schepisi ricrea l’essenza più tangibile del rifiuto, la parodia dell’attesa e la finzione teatrale di una famiglia che solo nel colpo di scena della morte esce dal personaggio per mostrare, anche solo per un attimo, la propria natura. Una costruzione fortunatamente efficace che, unita all’ umorismo sottile e venato di malinconia di Geoffrey Rush, regala un percorso emotivo riconoscibile e capace di mettere in secondo piano alcuni compiacimenti stilistici potenzialmente pericolosi per il cuore della narrazione.

di Tiziana Morganti