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L’Albergo Rosso – Garbatella 1936

La storia di una famiglia come tante che senza passare alla storia, con la storia fece i conti

Siamo nella Roma del 1936, a pochi anni dalla firma dei Patti Lateranensi che sancirono gli accordi di mutuo riconoscimento tra il Regno d’Italia e la Santa Sede. A seguito di questi venne costruita via della Conciliazione, la maestosa strada che sbuca su piazza San Pietro per inquadrare scenograficamente la Basilica: la visione “monumentalista” del regime fascista volta a distruggere l’effetto “sorpresa” pensato dal Bernini. Ma ad essere distrutto fu soprattutto l’isolato “Spina di Borgo” e con esso tutte le abitazioni degli artigiani che fino a quel momento avevano sempre vissuto in quella strada.

Una di queste famiglie è quella di Federico – un verace e a tratti commovente Ninetto Davoli – orologiaio da generazioni, costretto a lasciare casa e bottega per trasferirsi precipitosamente nella, ai tempi periferica, Garbatella, all’interno di un albergo provvisorio dove gli sfollati avrebbero trovato un alloggio temporaneo. Ed ecco “L’Albergo Rosso”, il più famoso tra gli alberghi suburbani progettati dal Sabatini, una sorta di esperimento di edilizia popolare che serviva a riunire la famiglie senza dimora in una coabitazione dettata da ferree regole di convivenza. Margherita – una straordinaria Gabriella Silvestri – moglie dell’orologiaio, distrutta da quell’improvviso sradicamento delle radici familiari, è intenta a rievocare i ricordi vissuti dentro quelle quattro mura, pronti ad essere rasi al suolo dalla ruspe: “perché almeno il passato, tutto ciò che è impresso in fondo all’anima, nessuno potrà mai distruggerlo”. È questo che continua a ripetere ai due figli – Valentina Marziali, la femmina ribelle che sembra non voler trovare un buon partito da maritare e Roberto Capitani, la cui giovanissima moglie, Francesca Romana di Santo, tenta di nascondere una gravidanza in un momento storico quanto mai burrascoso.

Molteplici le tematiche affrontate ne “L’albergo Rosso – Garbatella 1936”, commedia di Pierpaolo Palladino, autore italiano contemporaneo che aggrappandosi alla tradizione neorealista, mette in scena la forza della nostra drammaturgia. L’odissea della classi popolari a Roma e la loro ghettizzazione, il problema della casa e della sopravvivenza quotidiana, l’importanza delle origini e dei rapporti familiari che, per quanto esasperati, rappresentano l’unica preziosa ancora a cui aggrapparsi.

Due gli atti. Nel primo ci troviamo dentro la casa del borgo dove tutti sono intenti a fare i bagagli per l’imminente trasferimento nell’ignota periferia: c’è paura sì, tanta, ma nonostante tutto aleggia nell’aria quell’odore di speranza tanto conosciuto dalla povera gente, perché “tutto andrà bene” si dice. Nel secondo atto c’è un chiaro cambio di girone, ma verso il basso: eccoci in uno stanzone grigio e freddo, quello dell’albergo delle Suore Cappellane che, sotto lauto compenso, concedono ospitalità ai poveri diseredati. Qui, il nemico di famiglia Fabrizio Giannini riscuote la pigione da segugio del regime. Ed è proprio qui che l’istinto di sopravvivenza avrà necessariamente la meglio sui valori di onestà e di sacrificio tramandati in famiglia: perché si sa homo homini lupus.

Un dramma corale che con la sapiente regia di Federico Vigorito sembra riecheggiare le atmosfere di “Natale in Casa Cupiello” del maestro Eduardo e le ambientazioni di “Miseria e Nobiltà” del sommo Totò.

Fino al 19 febbraio al Teatro della Cometa. Per info e biglietti www.teatrodellacometa.it – tel. 066784380.

di Teresa Gentile