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Happening: la forza dello spettacolo improvvisato

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Happening: la forza dello spettacolo improvvisato

teatro_spotlightFin dalla sua nascita, il teatro si è manifestato in maniere differenti e attraverso svariate forme: tragedia, tragicommedia, commedia, opera, musical, solo per citarne alcuni.

Molti artisti sono stati considerarti dei precursori, degli innovatori nel campo teatrale: Goldoni, Pirandello, De Filippo, ma ancor di più le avanguardie novecentesche, hanno portato venti di rinascita e di cambiamento in tutti i settori. Nell’epoca della riproducibilità, istituita soprattutto dall’avvento del cinema, anche il teatro si adatta o ne contrasta l’effetto, trovando e provando nuove soluzioni. Partendo dal concetto di “opera” si arriva in breve tempo a quello di “evento” indicando, con questo termine, una serie di esperienze che punta a valorizzare la funzione del pubblico, non più inteso come fruitore passivo, ma elemento costitutivo dello spettacolo. Sulla base di questi presupposti comincia a diffondersi l’atto performativo inteso come momento spettacolare in cui pubblico e attori sono copresenti e producono effetto l’uno sull’altro. Una particolare forma di performance nasce negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta ad opera di Allan Kaprow e prende il nome di Happening. L’Happening, che ha le sue origini nell’ambito figurativo (soprattutto nell’espressionismo astratto di J. Pollock), si focalizza non tanto sull’oggetto, quanto sull’evento che si riesce a organizzare, sulla base dell’immediatezza, regola primaria di ogni atto performativo.
Nonostante questi tipi di spettacolo esaltino la spontaneità, l’assenza di un testo, l’imprevedibilità e l’autenticità di ogni evento, anch’essi hanno come fondamento i sette punti fermi che Kaprow ha evidenziato. Il primo afferma che la linea tra arte e vita deve rimanere fluida, e la più indistinta possibile; pertanto – continua il secondo – la derivazione dei temi, dei materiali, delle azioni e la loro corrispondenza possono venire fuori da ogni posto o periodo fuori che dalle espressioni artistiche e dal loro ambiente e influsso. Continua con i restanti cinque punti affermando che: la rappresentazione di un happening dovrebbe avvenire su parecchi spazi, talvolta mobili e mutevoli. Il tempo, di pari passo alle considerazioni sullo spazio, dovrebbe essere vario e discontinuo. Gli happening dovrebbero essere rappresentati una sola volta. Il pubblico dovrebbe essere interamente eliminato. La composizione di un happening è costituita di un certo collage di eventi in certe misure di tempo e in certe misure di spazio.
Questi principi dimostrano come il punto di partenza dei performers non fosse altro che il sovvertimento di tutti quei cliché che da sempre hanno incatenato il teatro alle sue convenzioni: il palcoscenico, il sipario, il canovaccio, gli attori, il pubblico. L’happening vuole regalare, nello stesso istante in cui si consuma l’evento, un momento di vita reale, vissuto contemporaneamente sia dai performers che dagli spettatori che non vestono più i panni di semplici voyeurs, come vuole la tradizione ottocentesca, per prendere direttamente parte all’azione. Come gli stessi punti teorici sottolineano, gli ambienti scelti sono quelli in cui lo spettatore-attore si sente più a suo agio: stazioni, giardini pubblici, scantinati, campi di pallacanestro, musei, ecc. dove è libero di muoversi e di interagire con lo spazio.
Kaprow rappresentò il primo happening “18 Happening in 6 parts” nel 1959 alla Reuben Gallery di New York. Avendo cura di scegliere un luogo non convenzionale, divise lo spazio del museo in tre ambienti ognuno con colori, odori ed eventi diversi, indicando al pubblico ogni volta il posto da occupare. Moltissimi sono stati, negli anni, gli artisti che si sono cimentati in questi spettacoli dal Living Théatre a Scheckner, dal Gruppo T a Raffaello Sanzio fino ad arrivare, oggi, al teatro di Martinelli o a quello di Vacis.

di Maria Teresa Pasceri


Svevo Ruggeri
Svevo Ruggeri
Direttore, Editore e Proprietario di Eclipse Magazine