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“Regno di numeri dispari”

L’Italia dei 150 anni, “bella e perduta” landa dai mille padroni e dai mille moti “indignati”, nelle pubblicazioni più originali e disincantate di storici, filosofi e romanzieri

Stivale dei “sette stati”, parrocchia della Controriforma, cortile d’Europa, motore di rinascimenti, crogiolo “risorto” di migrazioni e tradizioni, ciarpame politico del vecchio continente, culla dei saperi, tomba “romantica”, preda napoleonica, austriaca, savoiarda, borbonica, mafiosa, “serenissima” maestra, frammentata discepola, nativa imperiale, evoluta monarchica, aspirante democratica, oro degli sciocchi eppure arcobaleno di ricchezze, parlamento di antichi porci e accampamento di indignati oltraggiosi e nuovi. Italia, terra promessa e anomalo approdo, arca ricca e funesta, nata e cresciuta nella confusione di domini, sottomissioni e indipendenze, Babele multiforme di lingue e culture tese ad una (in)consapevole (com)unione. A 150 sbandierati ma presto digeriti anni dalla problematica “unità”, centinaia di studiosi e artisti riflettono e producono, speculano e sospettano, inventano e teorizzano sulla storia della nazione “nostra”. I significati del Risorgimento quale simbolo di un’era di ribellione e al contempo di articolata strategia diplomatica. Le visioni del popolo, gregge abulico o granuloso, febbrile impasto di dissidenze e di libertarie volontà. I volti (dimenticati) dei soldati dei re e dei generali, tra uniformi impacciate e camice rosse lacerate. Mille i punti focali da cui illuminare zone d’ombra e svelare verità normalizzate ma solo superficialmente scalfite. Scandagliando con piglio lucido e con l’affabilità di uno scrittore veterano, Lucio Villari ritrova la storia grande dell’unità nell’emblematico Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento (Gius. Laterza & Figli, 2009), che ricostruisce il sogno della patria negli eventi precipitosi tra il 1796 e il 1870, facendo emergere il primo senso d’italianità che si contrappose alla soggezione dello stato “straniero”. Si tuffa nel dibattito con un gusto critico mai derisorio, anzi equanime e spigliato, lo scrittore immigrato Pap Khouma. Col suo Noi italiani neri. Storie di ordinario razzismo (B.C.Dalai Editore, 2010) senegalese di nascita e cittadino orgogliosamente italiano, direttore della famosa rivista «El-Ghibli», racconta l’Italia di oggi e gli spettri di ieri con ironia mai feroce ma sempre efficace. Denudando la natura migrante di una larga fetta della nazione odierna e i troppi, piccoli o esagerati, episodi di razzismo, Pap Khouma si spinge nei territori dell’intercultura e nelle dinamiche, per ora spesso abortite in Italia, della famigerata integrazione sociale, un fenomeno (in)credibilmente vicino all’assembramento posticcio che i governi post unità mal gestirono dagli antipodi. L’eclettico Giancarlo De Cataldo, scrittore e sceneggiatore di successo (anche per lo spettacolare, discusso, necessario film di Mario Martone, Noi credevamo) ha frullato nella pulp fiction di un noir storico tra melodramma e saggio, I traditori (Einaudi, 2010), i destini devianti del Risorgimento, attraverso tre figure quasi mitologiche, l’anarchico, il possidente, il contadino, immerse nelle varie correnti unitarie, tra dark lady, spie, amori criminali, evanescenze garibaldine, frustrazioni mazziniane e sotterfugi regi. Un fluviale ma conciso contrappunto a due il saggio Einaudi Pensare l’Italia, dialogo sui massimi sistemi che hanno fatto e fanno il Bel Paese. Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone s’interrogano sulla modernità poco o eccessivamente porosa dell’italiana, dal 1400 agli anni ’60, dal Risorgimento alla “fiducia” berlusconiana. Dissotterra le ambiguità della nostra storia anche il giornalista Paolo Brogi, che si maschera divertito e irriverente da storico, andando a scovare con minuzia da filologo e con abile prosa narrativa la lunga fine di un’armata di diseredati, ne La lunga notte dei Mille (Aliberti, 2011). Pagine per analizzare la grammatica nascosta del Noi.

di Sarah Panatta

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