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Baudelaire e la poesia dipinta

Charles_BaudelaireSpesso leggiamo testi poetici che, senza accorgercene, custodiscono un’impronta della realtà assai più evidente della realtà stessa.

È quello che potremmo definire, con un’espressione, “il fascino del segno”. Ciò indica che il poeta quando scrive analizza la realtà in senso ontologico, come se questa stessa realtà più che averla osservata fosse vissuta e sentita tale al di là delle contingenze. Uno degli scrittori che inaugura questa nuova sensibilità rispetto alla forma è Charles Baudelaire. Scrivendo I Fiori del male egli incarna, ancora oggi, l’idea secondo la quale fa bene all’uomo, prima ancora di iniziare a poetare, a scrivere, sapere innanzitutto cosa si vuole ottenere dalla vita. Baudelaire è questo: è l’uomo che pur sapendo di annegare, di morire schiacciato dall’ignominia del «secolo cialtrone», come lui stesso definì l’Ottocento, è contento di essere riuscito per sé a ricreare uno stato incontaminato di cose, in cui il metro di pensiero dell’uomo si fa giudizio estremo ed efficace su tutto. L’indice di crudeltà che emerge dalla lettura de I Fiori del male è il sintomo, ormai divenuto malattia, di un’austerità insita nell’uomo. Baudelaire getta le basi per una riflessione non solo poetica, ma morale ed etica, che coinvolge i dati del vivere più macroscopici e lampanti, come il rapporto costante dell’uomo con la quotidianità. Ed è proprio il quotidiano e l’atto suo costitutivo a diventare violenza, sfogo di una “razza” che per vivere sente che è necessario fare del male. Ed ecco che si rivela chiaro il rapporto che la scrittura instaura con il segno, con quella identità tangibile che pone il senso della realtà non più come senso “pensato” ma assorbito in una maniera così efficace da essere “dipinto”. Quella di Baudelaire è una “poesia dipinta”. Questo dato interpretativo è evidente non solo se si osservano i quadri di Eugène Delacroix che molto hanno ispirato lo scrittore francese, ma soprattutto se si osserva una sezione de I Fiori del male dal titolo Quadri parigini. Ogni elemento descritto è un elemento raffigurato ed interpretato con tanta attenzione che la penna dello scrittore, di fatto, diventa un pennello. Un pennello che circoscrive, un pennello che amplifica il colore, un pennello che grida, un pennello che incide; un pennello che sfida e acceca l’occhio, un pennello che redime. È sufficiente leggere l’intera opera di Baudelaire per accorgersi quanto sia vero il motivo della pittura che i versi costantemente sottintendono. Tant’è che Baudelaire stesso si definisce “pittore del suo genio”, colui che “assapora nel suo quadro l’inebriante monotonia del metallo, del marmo e dell’acqua”. Ogni porzione di poesia è una sezione di un quadro, certamente di un più ampio quadro, quasi un immenso affresco che lo scrittore intendeva eseguire sulle pareti di un tempo storico che macchiava i suoi muri di peccato, di ingiurie e false credenze. La forza della poesia, della poesia dipinta, sta nel far sopravvivere sulla carta i colori che sono su di una parete o su di una tela. Baudelaire ha posto le basi per un’estetica della poesia da riscoprirsi autore di una parola che demarca autonomamente, senza legarsi alla sorte, con un colore nuovo, il disegno di un secolo a noi sconosciuto.
di Domenico Donatone