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La “razza” schizofrenica

The_protest_psychosis_-_Jonathan_M.MetzlQuando la malattia mentale si tinge di nero

Strana storia quella di Cecil Peterson. Un uomo come tanti, che puoi trovare fuori a una tavola calda, mentre sorseggia tranquillo il suo caffè.

E che mai ti sogneresti d’incontrare in una prigione, o, peggio, in un manicomio criminale. Se non fosse che Cecil Peterson è un afroamericano. Che  capita al posto sbagliato, nel momento sbagliato.
È il 1966. Martin Luther King, durante una marcia di protesta a Chicago, viene ferito dal lancio di un mattone, mentre Stokely Carmichael, in quegli stessi anni, fonda il movimento del Black Power. In America, più che altrove, essere nero costituisce un marchio indelebile. Così Mr. Peterson è abituato a farsi gli affari suoi e se s’imbatte, per caso, nello sguardo di un bianco, abbassa prontamente gli occhi. Quella volta, però, qualcosa non va come dovrebbe. E Mr. Peterson si ritrova per la strada a darsele di santa ragione con uno sconosciuto, e per giunta bianco. Di lì alla centrale di polizia di Detroit il passo è breve. Ma ancora più breve è la distanza che lo separa dallo Ionia State Hospital, dove ha sede il manicomio criminale. Cecil Peterson vi arriva con una diagnosi appiccicata addosso che pesa quanto una sentenza definitiva: disturbo sociopatico della personalità, per il quale si raccomanda la reclusione, l’isolamento e 200 milligrammi di clorpromazina, un comune antipsicotico.
Ma Peterson non è il solo. In quell’ospedale del Michigan oltre la metà dei pazienti sono afroamericani. Sulla cartella clinica di ognuno di loro si legge: schizofrenico paranoide, socialmente pericoloso. Una stranezza senza precedenti. Visto che proprio quell’ospedale, fino al 1950, ha ospitato in particolare donne, bianche, e del Midwest. Cosa è cambiato?
Il libro dello psichiatra Jonathan Metzl, “The Protest Psychosis” (Beacon Press, gennaio 2010) indaga sulle sospette diagnosi di schizofrenia affibbiate, in modo scriteriato, tra il 1960 e il 1970, a qualunque afroamericano che potesse costituire una minaccia. La paura del diverso si combatte a colpi d’inequivocabili certezze, meglio se fondate su presupposti scientifici. Così i neri sono “intrinsecamente aggressivi, facili alla collera” e inclini a perdere il controllo. Le riviste mediche si affrettano a identificare la schizofrenia con le forme più violente del movimento nero. Addirittura, secondo due esimi psichiatri dell’epoca, Walter Bromberg e Frank Simon, ascoltare i discorsi di Malcom X susciterebbe negli animi già incandescenti dei neri sentimenti di ostilità e odio nei confronti dei bianchi. La chiamano “psicosi di protesta” e sembra racchiudere in sé tutte le ansie di una generazione. Ma che è capace di rivoluzionare, dall’interno, gli stessi manuali psichiatrici.
Una storia che si ripete. E che mostra quanto sia labile il confine che divide la normalità dalla follia, al punto da indurci a credere che non sia mai esistito. Un’illusione culturale, che termina laddove hanno origine le disuguaglianze. Razziali, di genere, o economiche, poco importa. Quel che conta è come la malattia mentale rechi in sé il segno della disparità. E nella diagnosi, il potere del medico è tanto più forte e ingannevole quanto quello del paziente è fragile. Ecco perché una diagnosi errata ferisce per sempre. E senza possibilità d’appello. Nessuna cura è, infatti, in grado di restituire la dignità perduta. L’esempio di Basaglia, in Italia, insegna. Il mondo non è un posto in cui coltivare utopie.

di Michela Carrara

Svevo Ruggeri
Svevo Ruggeri
Direttore, Editore e Proprietario di Eclipse Magazine