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Youth – La Giovinezza

Youth - La Giovinezza

Youth - La Giovinezza

Youth – La Giovinezza

In concorso a Cannes 2015, la “simple song” pre-matura di Paolo Sorrentino

You got the love. Pronunciabile e trasform-abile in “you gotta love”. Come canta sul palco rotante in cotonatura sixties The retrosettes Sister Band. L’uomo deve amare, liberarsi dalla barriera dell’età, dalle vestigia sociali, viaggiare nel tempo e sopra tutto, nel proprio desiderio. Visto e stravisto che “l’amore è una cosa semplice”, per dirla alla Tiziano Ferro, desiderare è altrettanto inevitabilmente puro, reale, facile, da dire. La chiave servita nell’incipit Giovinezza è rendersi pronti all’amore e al suo ricordo, all’empatia incondizionata verso l’altro (moglie, figlia, amico d’infanzia, massaggiatrice, commensale, cantante nipponica sottovalutata, partitura da rivalutare, sogni da materializzare) sempre? Ultimatum alla vita. Ode all’ossessione della memoria del presente. Con Youth, in lizza a Cannes 2015 (in queste ore), in sala dal 20 maggio, e probabile premio alla regia, Paolo Sorrentino vuole firmare il suo testamento.

Evento prematuro, opera sovrabbondante e autocitazionista per l’ex regista prodigio (l’esordiente trentenne nello stivale italiota è sempre enfant) ormai quarantacinquenne, premio Oscar e volto Fiat. Dichiaratamente assillato, come tutti in fondo, dal conteggio della Morte, Sorrentino scrive e dirige col fedele alchimista della luce Luca Bigazzi (“suo” direttore della fotografia) le conseguenze dell’invecchiamento, inscatolate in sentenza filosofica a metà tra biscotto cinese e pubblicità Barilla (tra gli sponsor del film).

Mick è un ex compositore e maestro d’orchestra in pensione, marito fedifrago e padre assente, apparetemente votato solo alla semplice grande bellezza della musica, stalkerizzato dai francesi per un’autobiografia e dagli inglesi per un’esibizione dinanzi alla regina. Fred è il suo amico di buone notizie e amarcord “corretti”, prostatico regista col talento enorme di mister Ripley nel sangue, sul viale del tramonto e alle prese con l’ultima sceneggiatura, influenzata dalle voglie di una ex diva “gola profonda” ora dedita alle fiction in New Mexico. Entrambi in vacanza in un hotel lussuoso, rifugio/comunità di recupero. Danza morbida di panze vere e tette rifatte, di onde (di pelle d’acqua di venti) cascanti sulla bruma nitida e strigliata dei giorni mai distrattamente uguali. Di donne lasciate e di alpinisti arrapati. Di confessioni filiali e di devastazioni cerebrali. Di prostituzioni morali e di piccole routine accettabili. Un giovane attore che studia il mondo nei suoi minuti parossismi. Un violinista in erba e mancino. Un ex calciatore obeso di fama e inetto alla gloria. Una schiera di comparse grottesche, poesia di un purgatorio spesso blasfemo (vedi la pop star trash che brucia in un incubo-videoclip, tra i pochi picchi di geniale seppur incontrollato naif) aiutano Mick e Fred a trovare le proprie personali ragioni e forme di “trapasso”. Con il calore di gesti estranei, con vulve vip sventolate a bordo vasca, con lacrime versate per gioie mai provate prima.

Mentre la “monarchia” intellettuale si mostra vulnerabile, fa intenerire (anche se stessa) nella propria ridicola ovvia decandenza e stira le cuoia, “ritirando” a vigorosa sopravvivenza, seppur già postuma, la creatività ormai rassegnata paralizzata senile. Spiaggiata idromassaggiata consolata da miss, badanti palestrate, sushi d’autore, sinfonie forestali, brividi sessuali da piscina. Da Fellini pulp a Resnais almodovariano? Tra Saramago e Borges? O nessuno di loro? Perché in fondo, lo dice forse con candida autoironia Sorrentino, a se stesso, il bravo autore “ruba” senza conoscere, come un monello scaltro e ben allenato. L’Hotel geometricamente cullato dalla natura sontuosa, pastorale, silenziosamente bianco e onirico, popolato di coreografie mute e deteriori, prive di memoria appunto come nella villa de L’anno scorso a Marienbad (del compianto Resnais), è ritiro (sophia)coppoliano, classico non luogo o meglio “somewhere”, isola deserta, sovraffollamento di anime migranti, di casi oltre umani, oasi bruciante e fetida ma materna, ai piedi delle Alpi Svizzere, appositamente medicale e ipoteticamente redentrice.

Giocoliere di dolly vezzosi e di estatici campi lunghi, Sorrentino funamboleggia, di quadro in quadro, hopperiano e vulnerabile, altezzoso, novello Moravia o Sartre, nelle interpretazioni sfatte della noia del vivere. E sforna sentenze sulle frustrazioni comuni del non sentirsi “all’altezza”. Certo autobiografico e metacineamtografico, magnifico esteta e tecnico ancora sublime, non riesce ad incastonare nel flusso della sua “simple song” (come invece riesce Mick/Michael Caine, sir di un cast comunque lodevole) le virate impressioniste, gli inserti humoristici diventano kitsch e l’equilibrio si rompe, come il reticolato della pelle di Jane Fonda (“gola profonda” di cui sopra). I momenti di soprassalto sorrentiniano puro, ove ancora muto riappare “l’uomo in più” che sorride della futilità fabulosa e magica dell’esistere, sono perduti, come lacrime nella pioggia. Dove è la giovinezza? In sospensione su green screen, vuoto a perdere palesemente a picco nell’epilogo posticcio quanto la parrucca servilliana del mitologico Caine?

A Cannes l’ardua risposta, o meglio necrologio anzi tempo dell’autotumulato gigantesco Sorrentino.

CAST E CREW
Regia di Paolo Sorrentino
Con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weiz, Paul Dano, Mark Kozelek, Robert Seethaler, Alex MacQueen, Luna Mijovic, Tom Lipinski, Chloe Pirrie, Alex Beckett, Nate Dern, Mark Gessner, Paloma Faith, Ed Stoppard, Sonia Gessner, Madalina Ghenea, Sumi Jo e Jane Fonda
Soggetto e sceneggiatura di Paolo Sorrentino
Fotografia Luca Bigazzi
Montaggio Cristiano Travaglioli A.M.C.
Musica David Lang
Scenografia Ludovica Ferrario
Costumi Carlo Poggioli
Produttore esecutivo Viola Prestieri
Coproduzione Indigo Film, Pathé Film, France 2 Cinéma, Number 9 Films, C-Films
Ita 2015
Durata 118 min.

 

di Sarah Panatta