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Ritratto di signora

Quando nel 1988 Suu torna in Birmania per assistere la madre gravemente malata, non immagina certo l’approssimarsi degli eventi imprevisti pronti a travolgere come un torrente in piena la sua quotidianità. Sposata con un professore universitario inglese e madre di due ragazzi, svolge una vita tranquilla divisa tra il lavoro accademico dedicato alla difficile situazione del suo paese, sottoposto ad una ferrea dittatura militare, e l’impegno casalingo di moglie e madre.  Una routine destinata ad essere spazzata via da scelte politiche, convinzioni personali e la ferma intenzione di non rimanere indifferente di fronte alla sofferenza dei deboli e degli oppressi. Così, figlia dell’ultimo leader democratico birmano e ed emblema della rivolta, la delicata Suu si trasforma in Aung San Suu Kyi , il più indomito avversario dell’esercito e il  simbolo di una democrazia a lungo negata.  Tutti elementi  che le hanno valso nel 1991 il Premio Nobel per la Pace, riconoscimento per cui ha pagato un prezzo probabilmente troppo alto dal punto di vista personale e affettivo.

Dopo un passato dedicato al fanta-action, Luc Besson s’incammina attraverso il territorio insidioso e sconosciuto del racconto intimista. Decisamente non abituato al linguaggio sentimentale, il regista francese affronta una prova indubbiamente importante per la sua evoluzione artistica non riuscendo, però, a trovare una giusta modulazione d’intenti e di mezzi espressivi. Un’inadeguatezza che appare ancor più macroscopica se applicata ad una materia oscura e sconosciuta come il percorso personale e famigliare di una donna trasformata inaspettatamente in personaggio mondiale. Ed è proprio nel passaggio dal pubblico al privato che l’intera struttura mostra non solamente i suoi punti deboli  quanto l’ingenuo entusiasmo di un narratore neofito esposto all’errore più comune dell’enfasi celebrativa. Besson, si fa chiaramente conquistare dalla gentile determinatezza di Suu, attraverso  lo sguardo placido e sicuro di questa donna eccezionale si lega affettivamente al destino di una famiglia tanto forte quanto flagellata dalle difficoltà. Eppure, nonostante un’empatia evidente che costantemente accompagna il percorso della sua protagonista e dell’altrettanto eroico marito, il regista cade in una sorta d’indulgenza emotiva che sfocia in una beatificazione costante e spesso improduttiva.  Così, in un accordo ridondante tra immagini e parole, si tenta di colmare  il vuoto  emotivo di una vicenda attraverso il riflesso di un personaggio privo d’increspature che, messo a confronto con il tormento fisico e interiore di David Thewlis, proprio non riesce a trasformare la storia in racconto sentimentale.

di Tiziana Morganti

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