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Roma Fiction Fest 2015: masterclass con Paul Haggis

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Roma Fiction Fest 2015: masterclass con Paul Haggis

Paul Haggis - ©SilviaGerbino

Paul Haggis – ©SilviaGerbino

Il regista canadese, vincitore dell’Excellence Award 2015, incontra il pubblico per una lunga lezione su cinema e fiction

Doveva essere un Sabato di festa, ma la strage di Parigi dello scorso 13 Novembre ha gettato un’ombra sulla penultima giornata del Roma Fiction Fest. L’organizzazione del festival ha condannato gli attentati con un comunicato stampa e ha diffuso l’hashtag #StayStrongParis in segno di solidarietà. Il festival è proseguito regolarmente, ma all’insegna della sobrietà e,  l’attesissima masterclass di Paul Haggis, si è aperta proprio con le parole di cordoglio del regista: «Alla luce di quanto è accaduto ieri a Parigi, fatti per cui non riesco neanche a trovare le parole, volevo ringraziarvi per essere venuti qui oggi. Perché a volte, anche solo andare da qualche parte, è un incredibile atto di coraggio.» Durante il lungo incontro con il pubblico, moderato da Marco Spagnoli, ad Haggis è stato consegnato l’Excellence Award 2015.

  • Sembra che la televisione sia diventata la nuova letteratura: ha la stessa funzione che i grandi romanzi avevano nel XVIII e XIX secolo, ovvero, far circolare le idee. Chi fa televisione ha la stessa funzione dello scrittore. Le si sente un narratore che veicola delle idee?

«Sì, le storie servono anche a questo. Nel caso della serie che ho portato qui, Show Me A Hero, non si tratta di una storia che riguarda soltanto un problema sociale, ma anche dell’impossibilità delle politica in America. Oggi la politica è una questione di paura e divisione soprattutto nel mio paese, anche se la situazione è molto simile un po’ ovunque. Sicuramente avrete visto dei dibattiti politici in America, ammesso che possiamo chiamarli dibattiti perché sono davvero imbarazzanti: sono discussioni in cui ci sono persone che cercano di mettere paura a un altro di qualcun altro, soprattutto se hanno la pelle scura: ora sono i messicani quelli che si punta ad escludere, domani chi lo sa. E noi prendiamo queste persone seriamente anziché riderci su, perché siamo controllati dalle nostre paure. E Dio ce ne scampi, ma dopo quello che è successo ieri, credo che le cose sono destinate a peggiorare. Sono stato cresciuto come cattolico, ma molti di voi sapranno che mi sono allontanato dalla chiesa dopo un po’. Ma questa mattina stavo pensando che c’è una cosa che non riusciremmo a mettere in pratica neanche da cristiani: quando Cristo diceva “Ama il tuo nemico”. Non ci riusciremo mai, è una cosa totalmente estranea da noi. Ma finché non riusciremo ad empatizzare con quelli che non riusciamo neanche a capire, non avremo scelta e continueremo a dare quello che stiamo facendo. Ed è una cosa orribile da pensare adesso, perché quello che viene spontaneo fare è odiare, però non ci porterà da nessuna parte. So che c’è una risposta a tutto questo, ma non ce l’abbiamo adesso.» 

  • Lei ha iniziato come sceneggiatore e si dice che gli sceneggiatori siano persone molto solitarie: è vero?

«Io sono un solitario per natura e tutti i solitari vogliono far parte di un gruppo. Siamo in contraddizione per natura, per questo siamo fantastici esseri umani. Io sono introverso, ma un “introverso sociale”. Mi piace stare da solo, ma se mi vedeste alle feste vi rendereste conto che sono in grado di far sentire ognuno a proprio agio. Vi racconto una storia: anni fa ho tenuto una festa a casa mia con i candidati agli Oscar; vicino al mio barbecue c’erano Clint Eastwood, Steven Spielberg e Oliver Stone, che tra l’altro sono 3 dei miei registi preferiti. Ho dovuto presentare Steven Spielberg a Oliver Stone perché fino a quella sera non si erano mai incontrati. Mi sono detto: “Cazzo!”. Beh… dopo averli presentati e averli fatti sentire a loro agio, me ne sono andato in camera a guardarmi la televisione. La mia ex moglie girava per la casa e gli ospiti le chiedevano: “Dov’è Paul?” e lei: “È di sopra.” Poi scendevo giù dopo una mezz’oretta, facevo avere drink a tutti e tornavo su a nascondermi. Ed è stata la più bella festa di tutti i tempi, anche se mi nascondevo nella mia stanza. Ma siamo tutti delle contraddizioni in carne ed ossa e sono proprio queste a renderci interessanti come esseri umani. Molti scrittori non capiscono i personaggi perché si comportano esattamente come le persone che, spesso, agiscono contro quello che le farebbe stare bene, pensateci: amiamo qualcuno? Lo mandiamo via. Io amo essere uno scrittore, amo stare da solo e scrivere, amo i personaggi quando mi parlano; anzi, la maggior parte delle volte odio scrivere perché i personaggi non mi parlano o mi mentono, mi piace questo processo soprattutto quando accade e io inizio a immaginarli a visualizzarli… è davvero la migliore sensazione del mondo. Ma è anche la peggiore. Se penso al mio ultimo film, Third Person, mi ricordo che ci ho messo 2 anni e mezzo per scriverlo: stavo seduto 8-10 ore al giorno per 6 giorni a settimana. Scrivevo, sentivo che qualcosa non andava, buttavo pagine di sceneggiatura. Ed è terribile, soprattutto se stai scrivendo qualcosa di personale. Ma quella è la fase peggiore: quando arrivo sul set cambia tutto. È divertente, anche quando qualcosa va storto. C’è la crew, un nutrito numero di persone, che mi guardano e mi chiedono cosa devono fare. Magari dobbiamo girare una scena estiva e nevica. Non è che non senta la pressione, ma diventa un lavoro piacevole soprattutto perché ho a che fare con gli attori. Io amo gli attori. Amo vederli alle prese con la propria arte e ammirarla mentre prende vita. Mi sento molto fortunato.» 

  • Lei ha scritto materiale originale, ma ha anche lavorato all’adattamento di cose scritte da altri. L’esempio più lampante è Casino Royale: lei ha preso James Bond, ha riazzerato l’orologio e ha fatto quello che oggi si chiama reboot. Ha fatto anche Quantum of Solace, ma poi ha lasciato la libertà ad altri registi di proseguire il lavoro che lei ha iniziato. Ci si sente gelosi di un “figlio” come Bond che poi prende altre strade?

«Io sono una persona piccola, orrenda e senza cuore: certo che sono geloso, figli di puttana! Scherzo, ma neanche tanto. Penso che tutti gli sceneggiatori, i registi, gli attori arrivino a un certo punto della loro carriera in cui vedono qualcosa di bello, grande, divertente fatto da qualcun altro, una creatura con il quale ti sarebbe piaciuto giocare, una festa alla quale vorresti essere stato invitato. E mi è successo con vari film che ho visto. C’è un film ad esempio, che non ho ancora visto, che si chiama Trumbo che parla di un mio eroe: si chiamava Dalton Trumbo ed era uno sceneggiatore hollywoodiano che si è battuto contro la “caccia alle streghe” nei confronti dei comunisti durante l’epoca McCarthy. Io ho anche un suo poster con su scritto “Grazie, Dalton Trumbo”, perché era davvero uno scrittore fantastico. Ecco mi sarebbe piaciuto fare un film su di lui e, quando ho saputo che lo stava facendo qualcun altro, mi sono detto: “Merda! Avrei voluto farlo io, ma non ci avevo pensato!” Sì, sono un uomo geloso e orribile.» 

  • Lei ha fatto film diversissimi tra loro. Cosa la spinge a cambiare sempre? È il piacere della sfida?

«Mi piace l’idea di poter raccontare qualunque storia. Per quanto mi riguarda Bond, Third Person, Crash e tutti gli altri film che ho fatto, hanno una caratteristica comune che forse nessuno vede: c’è sempre una domanda al centro della storia alla quale, io per primo, non riesco a rispondere. Qualcosa d’inquietante. Prendiamo Bond, Casino Royale. Mi calo io stesso nel personaggio e mi chiedo: “Cosa farei in quella determinata situazione?” E non sono contento finché non trovo qualcosa, una decisione che mi catturasse. Di Bond mi sono anche chiesto: “Ok, perché ha questo rapporto con le donne? Forse è stato ferito.” È un uomo che indossa un’armatura come me. E cosa succede a un uomo che indossa un’armatura? Allontana le persone, come faccio io. Sì, qualcuno può riuscire a togliermela, ma non è semplice. Quindi Bond è un personaggio per cui provo empatia. Cosa potrebbe succedere, quindi, quando un uomo incontra una persona di cui si può fidare ciecamente, innamorarsi, ovvero la compagna perfetta? Così ho scritto la scena del treno. Avevo solo una scena per fare innamorare i due protagonisti e… quand’è che t’innamori di qualcuno? Quando la persona che hai di fronte ti vede per quello che sei. E tu vedi lei nello stesso modo e vi accettate a vicenda. È la cosa più potente del mondo» 

  • C’è un momento della sua vita in cui ha deciso di fare questo mestiere?

«Ero molto giovane e amavo i film, la televisione, i fumetti e tutto quello che aveva una storia da raccontare. Adoravo i film horror con Vincent Price e i film di Hitchcock. Non ricordo quale vidi per primo, ma furono le opere degli avanguardisti francesi e italiani come Truffaut, Godard, Antonioni, Pasolini, Fellini: ogni volta che guardavo un loro film ero stupefatto e mi chiedevo: “Davvero si può raccontare una storia così e rigirarla in questo ?” È così che ho deciso di fare questo mestiere e che ho scelto di fare anche il mio ultimo film, Third Person, qualcosa che pensavo nessuno sarebbe mai andato a vedere. Perché non c’è più pazienza per film del genere: vogliamo risposte rapide, che siano ben evidenziate e sottolineate. E invece io voglio fare film che pongano delle domande piuttosto che dare delle risposte. Quel genere di film che ti spinge a discutere animatamente con gli amici perché nessuno ha capito di cosa parlasse! Ecco: queste sono le decisioni stupide che si fanno nella propria carriera. Mi piace l’idea dei puzzles, di sentirmi quella parte del pubblico che cerca di comprendere quello che vede entrando nel mondo di qualcun altro. Forse riesco a sentire le cose solo attraverso i personaggi che creo ed è una sensazione tremenda. Forse loro sono la proiezione della parte peggiore di me stesso, non so. A volte stai guardando Crash e pensi di capire chi sei. Lo sai davvero? No, non ne hai idea. Mi piace esplorare le nostre vite e il fatto che pensiamo di sapere chi siamo, quando in realtà, di noi stessi, conosciamo pochissimo.» 

  • Abbiamo l’impressione che lei ami mettersi in pericolo: ha rifiutato tantissimi film importanti o perché somigliavano troppo ai suoi o perché in qualche modo non la convincevano. In tutto quello che ha fatto non ha mai ceduto all’omologazione. È un rischio?

«Non è vero pericolo e non è un vero rischio. Lo è dal punto di vista personale e della mia carriera, ma non è neanche lontanamente paragonabile ai rischi che corrono le persone nella vita reale. Ma io non sono una persona reale! Fingo di esserlo attraverso i miei personaggi, fingo di provare quello che provano loro e rischio la mia carriera, ma per favore: ogni persona che lavora rischia quotidianamente molto più di quello che io abbia mai rischiato in tutta la mia vita.» 

di Lucia Gerbino