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“Grand Budapest Hotel”: nove candidature agli Oscar 2015

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“Grand Budapest Hotel”: nove candidature agli Oscar 2015

Grand Budapest Hotel

Grand Budapest Hotel

Si aggiungono a quelle per i Gloden Globe, tra cui quella a Miglior Attore per Ralph Fiennes. La storia di un concierge e del suo fedele servitore raccontata in maniera inedita. Il declino di un albergo, che segue all’illusione di un sogno distrutto dalla guerra

Ben nove candidature agli Oscar 2015 per “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson che, oltre ad esserne regista, ne ha ideato il soggetto, la sceneggiatura e ne è anche in parte il produttore. Le riprese, iniziate il 14 gennaio 2013, si sono svolte nella città di Görlitz e dintorni. In Italia è stato distribuito dalla 20th Century Fox a partire dal 10 aprile scorso. Sicuramente, al di là delle singole candidature, resta interessante il doppiaggio italiano dei due protagonisti da parte di Francesco Prando (che dà la voce a M. Gustave) e di Manuel Meli (che la presta per Zero Moustafa). Le nomination ottenute da “Grand Budapest Hotel” sono le seguenti e sono ormai già state rese note: Miglior film a Wes Anderson, Scott Rudin, Steven Rales e Jeremy Dawson; Miglior regista per Wes Anderson; Migliore sceneggiatura originale per Wes Anderson; Migliore fotografia per Robert Yeoman; Migliore colonna sonora per Alexandre Desplat; Migliore scenografia per Adam Stockhausen e Anna Pinnock; Migliori costumi a Milena Canonero; Miglior montaggio a Barney Pilling; Miglior trucco a Frances Hannon e Mark Coulier.

A queste vanno ad aggiungersi le quattro per cui corre anche ai Golden Globe 2015. Per tale competizione, oltre alle ribadite Miglior Film, Miglior Regista, Miglio Sceneggiatura, anche quella per Ralph Fiennes a Miglior attore in un film commedia o musicale, che non è fuori luogo.

In questa corsa alla statuetta, “Grand Budapest Hotel” contende il posto a molti capolavori, a partire da “American Sniper” di Clint Eastwood, a Birdman, a Boyhood, ad Imitation Game, a Selma, a La teoria del tutto. Quello che, forse, gli permette di potersi affiancare ad essi è il tono apparentemente assurdo con cui tutto viene raccontato, in maniera vorticosa e claustrofobica, dispersiva ed alienante, in una corsa alla scoperta della verità che sembra destinata a far ricominciare tutto da capo. E poi l’insolita storia della vita di un concierge (portinaio), raccontata con gli occhi dello stesso M. Gustave (a capo del Grand Budapest Hotel appunto) e del suo fedele “servitore”: il giovane Zero. Il film gioca col poliziesco e sembra quasi un film o un fumetto uscito dalla pellicola dei fratelli Lumière, con una comicità e delle gag che ricordano un po’ lontanamente quelle di Stanlio e Ollio. Un racconto stile anni ’60 ’70, diviso in parti, come un puzzle da ricostruire, che racconta le vicissitudini dei due protagonisti. Mostra cosa voglia dire essere un concierge di un albergo di lusso, che lo si rimane per sempre, anche una volta finiti in disgrazia. Diventa quasi uno stile di vita che si mantiene in ogni circostanza (anche la più assurda), così come si custodiscono i segreti degli ospiti dell’albergo sino alla morte e nella tomba. Il concierge diventa quasi un confidente, un amico fedele e fidato, una sorta di psicanalista di fiducia che conosce gli albergatori meglio di chiunque altro, come le sue tasche e come le camere del suo albergo, di cui possiede le chiavi riuscendo facilmente ad entrare in rapporto stretto e confidenziale coi suoi ospiti, che vizia e riempie di attenzioni, tanto da riceverne beni materiali e regali in cambio. Persino un quadro in eredità, da testamento, dopo la morte di una cliente. Tutto bene, almeno finché M. Gustave e Zero non scappano via con il dipinto, Ragazzo con mela, per sfuggire alla gelosia del figlio della donna, Dmitri, che glielo vuole negare. Ne seguono inseguimenti al limite dell’inverosimile ed il quadro finirà per diventare il simbolo e l’icona dell’albergo stesso.

Ma un concierge deve rimanere sempre imperturbabile, dignitoso, fine, elegante, composto nella divisa, nel portamento, nell’atteggiamento, nell’espressione del volto e nel linguaggio usato, moderato e mite, controllato in ogni sua reazione. Disposto a tutto pur di riappropriarsi del “suo” hotel, un concierge è anche una sorta di “pagliaccio” al servizio della clientela, un uomo che deve trasformarsi e disimpegnarsi in molteplici ruoli, come una maschera pirandelliana che segue la logica dell’”uno, nessuno e centomila”, per cui arriva a non sapere neppure più lui chi sia, ma sa che è innocente e che vuole rimanere sempre fedele al suo sogno, di essere a capo di un albergo prestigioso, ad ogni costo. Una sorta di sovrano nel suo piccolo regno, egli “mentre la guerra proseguiva, continuava a servire il suo Paese dal suo bancone”. Come il direttore d’orchestra che continua a suonare mentre il Titanic affonda, pensando e sperando di poter allietare tutti coloro che ne sono a bordo, egli cerca disperatamente, con una risata quasi isterica, di fuggire dal declino. Come un ladro in fuga dagli inseguitori e dalla polizia, egli si trasforma, vestendo mille panni diversi, e cerca di mimetizzarsi tra la gente, ma mantiene sempre costante per Zero un sincero “barlume di umanità in quel mattatoio di barbarie che era diventato il mondo”. E, nonostante fosse consapevole che il suo sogno fosse già finito e tramontato “ne sostenne l’illusione con grazia magistrale”, col sorriso ironico di chi deve infondere speranza. Anche una volta perso il prestigio e la protezione, un concierge non smette mai di sentirsi tale e di impartire lezioni ed insegnamenti di morale di alto rango e di stampo filosofico. Tra queste, due principalmente: “quando in ballo c’è la fortuna di una grande eredità, l’avidità degli uomini sconfina” e che “non conviene fare nulla nella vita perché tutto finisce in un batter d’occhio”. E proprio lui che era convinto dell’esatto opposto, dovrà rassegnarsi alla dura realtà e veridicità della seconda affermazione: è la dura legge della guerra e di ogni conflitto bellico, che annienta ogni briciolo di sentimento ed umanità. E se la guerra è quanto di più tragicamente autentico possa esservi, l’ambientazione del film è immaginaria, con un continuo passaggio tra realtà e finzione, sogno e realtà, sogno e declino, costruzione e distruzione. Siamo, infatti, catapultati nel 1968, tra le montagne dell’immaginaria Repubblica di Zubrowka (nell’Europa centrale dell’Est, non lontano da Łódź). Qui questo concierge cerca di fare di una tragedia una commedia o almeno una storia drammaticamente divertente, tanto che il film viene inserito nel genere della commedia: un po’ come fece Roberto Benigni ne “La vita è bella”, per cui nel 1999 ricevette tre Oscar, tra cui quello alla migliore colonna sonora, quello al miglior film straniero e quello al miglior attore protagonista. Speriamo, dunque, che il paragone porti fortuna a ”Gran Budapest Hotel”. L’esito lo conosceremo il 22 febbraio prossimo.

di Barbara Conti