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Fuori dal coro, di Sergio Misuraca

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Fuori dal coro, di Sergio Misuraca

Fuori dal Coro

Fuori dal Coro

Film a basso budget, unisce il fascino fatale del sogno americano e di una Sicilia “maledetta”. Trovare lavoro in Sicilia è difficile, quasi impossibile se si intreccia la malavita dei boss

Un viaggio andata e ritorno dalla Sicilia all’America. Si parte per fuggire all’assenza di prospettive, soprattutto per i giovani neolaureati siciliani, per poi essere costretti a ritornare. E non si può non notare la somiglianza tra una città americana e una siciliana: Palermo o qualsiasi città della Sicilia sembra una Las Vegas coi suoi colori e il suo caos travolgente. Se in America c’è Little Italy, in Italia c’è la Sicily rappresentata dall’opera prima di Sergio Misuraca. È, infatti, Fuori dal coro a segnare il debutto cinematografico del cuoco di Robert De Niro, da sempre appassionato di cinema, che da Hollywood è tornato in Sicilia, dopo aver vissuto dal ’94 al ’98 a Los Angeles. Un mix di risate e pallottole per un prodotto esilarante, con una sceneggiatura raffinata, ben definito da Marco Giustiun cannolo esplosivo” o “un negroni rovente ed incandescente” potremmo dire. “Ho iniziato a scrivere la sceneggiatura avendo già questo titolo particolare” ammette Misuraca. A parte questa situazione insolita (di solito non si parte dal titolo nella sceneggiatura), il nome del film deriva dal fatto che si tratta di un prodotto fuori dagli schemi ed è, al contempo, un tributo del regista ai suoi genitori, che cantavano in un coro. Ed, infatti, l’omaggio è completato con l’apertura e la chiusura del film con una scena in cui i protagonisti cantano in un coro diChiesa. È  una commedia nera, in controtendenza rispetto alle richieste del mercato italiano. Si ispira a certo cinema americano hollywoodiano di cui fanno parte i riferimenti artistici del regista: da Quentin Tarantino, a i vari Guy Ritchie, Martin Scorsese, ma guardando anche con simpatia a certa commedia all’italiana molto verace, acuta e perspicace. Una sfida, “un atto di coraggio del regista nel creare questo prodotto culturale ed artistico”, commenta Alessandro Schiavo, che interpreta Tony, uno dei protagonisti. Ma anche un atto d’affetto nei confronti della patria del regista: “Per me parlare male della Sicilia è stato un dolore perché amo questa terra maledetta”. Ed è così, la Sicilia viene mostrata nella degenerazione a causa dell’abbandono di molta della sua linfa vitale: quella gioventù scappata in cerca di fortuna, inseguendo il sogno americano sempre al centro di questo film. Perché in Sicilia è impossibile trovare un lavoro, è l’amara constatazione.  Un luogo affascinante, ma inquinato dal degrado cui ha portato il sogno dell’altrove. Solamente chi è “fuori dal coro” può sopravvivere a questa corsa autodistruttiva, a questa guerriglia sanguinaria che cancella qualsiasi traccia di umanità, al sangue versato dalla malavita per annientare l’altro per una lotta di corruzione per accaparrersi il potere illecito ma di fatto involutivo. Ma il richiamo alla terra natia è sempre troppo forte nonostante i problemi. Tornare in quella Sicilia da cui si è fuggiti: non si può evitare di fare i conti con quella terra che rappresenta la propria identità. E col proprio passato. Nessuno ne è indenne e a conti fatti nulla sarà più come prima. Tutto cambierà  e verrà stravolto per rimanere, in ultimo, sempre uguale. L’aspetto più coinvolgente è che tutto parte dalla semplice ricerca di lavoro, che porta alla deriva e alla perdizione, con lo scatenarsi di una forza inarrestabile e incontrollabile che conduce alla fine di ogni umanità, e non l’aspirazione alla ricchezza, al successo, al potere politico o un’ambizione spregiudicata. Per la Sicilia, i giovani e il Sud non c’è speranza: due giovani, due amici, cercano due vie diverse per farsi largo in società, ma tutto confluirà in un finale tragicomico che solamente il senso di umorismo e di ironia tipici siciliani potranno sdrammatizzare con una sorta di piacevole leggerezza.

Fuori dal coro è la storia di due amici. Dario, alias Dario Raimondi, legato a Misuraca da un’amicizia già prima del film, che lo definisce: “l’icona triste delle generazioni moderne di neolaureati; ma Dario è speranzoso (quasi un po’ ingenuo, inesperto, ignaro ndr) che in Sicilia si possa fare qualcosa di buono”. E Nicola (Alessio Barone), che si rifugia nella droga (per lui “fare lo spacciatore è un mestiere, è questione di apertura mentale”), mentre avrebbe voluto essere un poliziotto. Entrambi cercano di uscire dalla crisi trovando una soluzione innovativa alla disoccupazione: il primo cercando la raccomandazione del “Professore”, che lo porterà in America a fare l’”uccellino” cioè uno dei tanti siciliani che vanno lì due volte l’anno per uno scambio di buste senza che mittente e destinatario si conoscano. Lì incontra suo zio Tony (Alessandro Schiavo) finito nel frattempo anche in prigione e che, dunque, ben conosce come funzionano le cose laggiù. Un po’ l’inpersonificazione del regista, che ha pagato sulla sua pelle il trasferimento in America. Il secondo, Nicola, punta tutto sullo spaccio della droga. Entrambe le strade porteranno alla distruzione di quella società tradizionale tipica siciliana fondata sui valori sacri, ormai persi, della famiglia e soprattutto di quell’amicizia che, nonostante tutto, i due giovani riescono a difendere sinceramente.

Il film mostra sia gli aspetti negativi del sogno americano che il degrado che ha colpito la Sicilia. Non manca un attacco alla malavita, mostrata in tutte le sue debolezze, dove molto spesso a prendere in mano le redini dei conflitti e delle vendette sono le donne. Boss troppo deboli, come il professore stesso (trovato morto) o dello slavo: quest’ultimo (bianchissimo) ha un figlio di colore che ha chiamato Darko Pančev. Si tratta di un caso di omonimia voluto. Darko Pančev è, infatti, un attaccante macedone che ha militato nell’Inter di cui è tifoso il regista. Ma è anche un’icona simbolica: è noto, infatti, che il giocatore concluse l’esperienza con i nero-azzurri negativamente, segnando un goal in 12 partite: “L’Inter è stata il più grande sbaglio della mia vita”, disse.

Ma c’è anche il lato positivo, così come per la Sicilia. Di quest’ultima vengono mostrati la musica, i paesaggi, le sagre, le tradizioni, le credenze, il mare, il sole, il cibo, le feste paesane, la fede religiosa. Ed in più i risultati positivi che può portare, rappresentati dall’immagine del ristorante messo su da Misuraca a Terrasini (Pa): Ristorante messicano El Bocadito Restaurante.

Questo dualismo tragico di positività e negatività che attanaglia la Sicilia descritta dal regista è perfettamente raccontato dalla scena della Processione del Gesù morente, con le sue stigmate e il sangue versato per l’umanità, mentre fuori (fuori dal coro dei processanti verrebbe da dire ndr), tra la gente, avviene la strage dei mafiosi che porta alla distruzione di quell’umanità, di quella fede religiosa, di quel credo che è simbolo della fiducia delle giovani generazioni nel futuro.

Il film, dicevamo, è a basso budget. Misuraca ha cercato di risparmiare facendo riprese di Terrasini, suo paese d’origine cui è molto legato, ed altre ancora a Roma, ospitando sempre il cast nel suo B&B e in case di amici e sfruttando il catering del suo ristorante. Il film “nato da tutto il cinema che ho visto”, come ha affermato il regista, ma anche da tutto quello che ha vissuto in prima persona, cresce di spessore dando un senso di autenticità e di affidabilità che allontana la pellicola da un semplice poliziesco o thriller per acquisire un maggiore realismo. Il tono è certamente esagerato ed esasperato, ma non si ha mai l’impressione di vivere in un film surreale. Si è, infatti, trascinati nel vorticoso ritmo di un intreccio complesso che unisce e tratta contemporaneamente storie di vari personaggi, accomunando questa coralità ad un destino inesorabile: quello di giovani dalla personalità diversa, ma entrambi consegnati a prospettive poco liete; quello della Sicilia e del Sud intero; quello dell’Italia moderna che sembra arretrata ai tempi in cui ci furono le prime emigrazioni per l’America. L’amara disillusione dei sogni infranti dei giovani in cerca di un lavoro che non arriva o di chi, come Tony, era partito con i migliori propositi e col massimo ottimismo, col desiderio di fare l’attore e invece è ridotto a lottare contro i mafiosi ogni giorno, con i quali deve convivere a stretto contatto.

Quest’ultimo, come il regista Sergio Misuraca, guarda con occhio lucido, distaccato, clinico, esperto, la deriva sociale cui si è arrivati. Tony è (richiamando la Processione) quasi un Gesù che si è reincarnato, un Cristo Risorto dalle proprie ceneri della spensieratezza di una gioventù perduta. Così come quello dalla Sicilia all’America (e ritorno) sembra un viaggio della speranza naufragato, come quello delle migliaia di profughi annegati o che hanno perso la vita nelle acque del Mediterraneo, al centro di molta cronaca di oggi.

 di Barbara Conti