Autore emergente…
Matteo Bennati è un giovane scrittore e poeta nato a Roma nel 1986.
Dopo aver frequentato l’Istituto per la Cinematografia e Televisione “R. Rossellini”, si è diplomato in qualità di fonico ed attualmente lavora come microfonista in diversi stadi d’Italia durante le partite di calcio di serie A.
Esordisce come scrittore di romanzi con Qui (Casa editrice Il Filo) nel 2007, per poi pubblicare la raccolta di poesie Splenalgia nell’ottobre 2010. Ha vinto diversi concorsi di Poesia a livello Nazionale: attraverso la rivista Orizzonti ha pubblicato nella Raccolta “Tra un fiore colto e l’altro donato” le sue poesie: “Incertezze dell’anima”, “Candele”, “Marinaio” in vendita presso le librerie Feltrinelli dal 12 Dicembre 2006.
Ha ricevuto il premio della Giuria al Concorso nazionale di poesia a Pescara “Nuova acropoli” con la lirica “Il cantiere della nuvola.” In data 24 Novembre 2010. Tramite le sue poesie sperimenta visivamente la metrica, traendo importanza da ogni singola parola che si trasforma in musica. Il suo stile si barcamena tra una musicalità molto alla Baudelaire e una disarmante schiettezza alla Bukowski. Le poesie, molto spesso, si trasformano in racconti frammentati in versi; racconti di esperienze personali ed universali, allo stesso tempo, e critiche sincere alla società.
E’ nato tutto da Baudelaire, dall’ idea dello Spleen: l’angoscia di vivere al quale si contrappone l’ideale fatto di tutt’una serie di corrispondenze alla natura, all’amore e alla bellezza. Spleen, inoltre, vuol dire “Milza” e Splenalgia è un termine medico che indica il dolore alla milza. La copertina l’ho fatta disegnare da un amico, ed è, effettivamente, una milza che perde sangue e parole. Splenalgia, il dolore dato dall’angoscia del vivere. Dolore alla milza.
(ride) Il libro è dedicato a due donne che sono state due mie grandi disavventure sentimentali. Ce n’è stata una, in particolare, che mi ha colpito molto nella vita e decisi di scriverle quest’elogio sentimentale.
In questa raccolta ho voluto racchiudere le poesie che esprimono i concetti che mi porto dentro. Effettivamente seguono un certo crescendo: sono messe in ordine di sentimento. E, allo stesso tempo, sono anche messe in un ordine temporale: vanno a ritroso rispetto ai sentimenti. Insomma è casuale l’ordine. Non amo l’ordine.
Candele. È nata in un momento della mia vita nel quale ero a cavallo tra la mia prima crisi esistenziale e la vita reale. Ho avuto un po’ di problemi a livello emotivo nella mia vita. Qualche anno fa lavoravo a Cinecittà e mentre camminavo per una città finta, sul set di Gangs of New York, mi rendevo conto che la realtà che mi ero creato era uguale a quella città finta. Quello che mi restava di reale erano i ricordi e in effetti è una poesia che parla dei ricordi.
E’ strano ma io non so nemmeno una mia poesia a memoria, se non qualche verso. Ed è questo, secondo me, che rappresenta la poesia: ossia l’istinto e la voglia di esprimersi scrivendo. Buttare via quello che hai dentro e probabilmente avere la presunzione di insegnare agli altri, di dare qualcosa, le tue esperienze, le tue sensazioni. Come quando si dipinge un quadro dettati dall’ispirazione, puoi riprodurre lo stesso identico quadro ma non con le stesse identiche mosse. L’ispirazione quando arriva arriva e nel caso della poesia scrivo tutto di getto, come un pensiero, per questo credo di non ricordare nulla a memoria.
Alcune sono state scritte nel momento in cui mi sono avvicinato al pensiero filosofico dell’anarchia e esso ha rivoluzionato il mio genere di poesia. Tutto iniziò attraverso i testi di canzoni, una in particolare: “Se ti tagliassero a pezzetti” di De Andrè, una canzone d’amore e allo stesso tempo una canzone d’amore per l’anarchia. Io sono cresciuto con De Andrè e mi sono anche interessato al suo pensiero. Un’altra canzone, sempre di De andrè è anche “Nella mia ora di libertà”, una canzone-poesia, il verso al quale sono più affezionato è: “Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.”
E questo testo mi ha portato ad analizzare il mio pensiero sulla società e la politica. Quindi la mia poesia è incentrata su sull’amore, ma anche sulla libertà, che non è politica, è anarchia.
Le mie poesie hanno parecchie contaminazioni musicali. I cantautori a cui mi sono ispirato sono De Andrè appunto, Battiato, Guccini, De Gregori e a tratti ci sono Le Luci della centrale elettrica che a loro volta si ispira dagli stessi cantautori ai quali mi ispiro io, c’è anche Léo Ferré, Giovanni Lindo Ferretti e svariati altri.
Ora ho cambiato molto l’approccio poetico; con le poesie di Splenalgia mi rapporto molto con la natura umana interiore. Ora, invece, uso parole diverse sono entrato in una visione più meccanica, metropolitana e underground.
La poesia può essere capita se il percorso interno delle persone le porta li. Di fronte a quei versi. Non è tanto facebook o la società che è cambiata, ma il rapporto tra le persone che è cambiato. Abbiamo tolto parecchi limiti culturali, si vede molto più sesso e violenza, in televisione, sui giornali, ovunque. E allo stesso tempo, paradossalmente, c’è molto più disinteressamento rispetto ai sentimenti. I sentimenti e i rapporti sono molto più superficiali, quello forse allontana dalla poesia. La libertà sessuale è cresciuta fortunatamente, questo poteva aiutare ad aprirsi più profondamente verso i sentimenti, invece sembra sia successo il contrario. Oggi nella poesia c’è molto più sesso, ma resta comunque, in quanto poesia, sempre e comunque un’analisi, quindi, anche se apparentemente superficiale resta un pensiero personale, quindi intimo, di conseguenza profondo.
Poi, in generale, non esiste la visione del poeta come artista. Oggi esiste il cantante o lo scrittore. Il poeta è stato sempre abbastanza nell’ombra, diciamo che con la poesia non si va in radio, in tv. Quindi la poesia resta in un angolo. Quasi di nicchia.
Ho finito il mio secondo romanzo, si chiama “Il mio stomaco va a puttane e speriamo non spenda troppo”, che parla della mia seconda crisi esistenziale; sono solito scrivere romanzi all’alba di crisi esistenziali (ride). Parla di una storia molto autobiografica, parla di me alla ricerca di me stesso. E’ un po’ un fare i conti prima dei miei 25 anni. È molto strano come romanzo, perché va dal capitolo meno cinque, passa per lo zero e arriva al dieci. E sono sfalsati tra loro. A me piace pensare che sia molto Tarantiniano, con una vena Felliniana perché c’è di mezzo un soggetto cinematografico, ma contornato di serate, sbronze e sesso, sullo stile di Bukowski. Comunque è un romanzo che parla, fondamentalmente, della solitudine, vista con la poetica di Ferré.
Di Francesca Casella