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Romics 2013: Francesca Ghermandi ottiene il Romics d’oro

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Romics 2013: Francesca Ghermandi ottiene il Romics d’oro

Francesca GhermandiNelle sue opere prevale: il gusto per l’intricato, la complessità, il racconto corale e soggetti emancipati in un animismo che scandagli l’umanità

L’edizione 2013 del Festival del fumetto, dell’animazione e dei games vede l’assegnazione di due Romics d’Oro a due donne. Una è Francesca Ghermandi: “un premio che non mi aspettavo, che mi ha commosso e che credo sia frutto di anni di lavoro”, ha commentato. Al pubblico ha spiegato la sua passione per l’intricato, la complessità. Da persona piena di paure quale è ha la paura dei vuoti e degli spazi bianchi, che la porta ad esagerare, ad ammassare sulla scena, creando persino troppo. Infatti nelle sue creazioni c’è un brulicare di personaggi, di spazi mai vuoti, anzi fin troppo pieni. Questo è un po’ un suo limite, confessa, come anche suo padre, scultore, gli ha fatto notare in passato, pur apprezzando le sue opere artistiche; ma per Francesca la difficoltà di limitarsi in tal senso nel dar libero sfogo alla fantasia e all’ideazione di nuove figure è forte: “non fa parte del mio carattere; è come il parlare troppo”…non sa fermarsi, come nella produzione, una volta innescata la marcia creativa è come un disel che, avviato il motore, lo porta su di giri e diventa una macchina in grado di macinare chilometri, quelli ideali percorsi dai diversi personaggi che si intersecheranno nella storia di Francesca a diversi livelli narrativi, dando vita a una storia nella storia con diversi toni narrativi: dal comico al tragico. Francesca, tra l’altro, ama i mostri e la mostruosità ed ha la tendenza a dare loro una valenza umana, raffigurandoli sì come orrendi e deformi, però anche in tutto il loro aspetto migliore, quali figure buone. Per lei ogni cattivo è buono ed ogni buono non è poi così totalmente buono. Adora stravolgere gli ordini delle cose e dare nuova vita ad oggetti apparentemente comuni, animandoli, da mettere in relazione tra di esse, come fa per i personaggi. È molto affezionata ad essi e predilige storie di emarginati e di persone che non riescono ad adattarsi alla realtà. E, a suo avviso, i protagonisti delle sue opere, quanto gli oggetti reinterpretati, una volta che li fa vivere, non smettono di esistere, non muoiono mai poiché, spiega, anche se rimangono nel dimenticatoio ed in soffitta per poco o molto tempo, possono comunque tornare a pulsare con un’altra occasione successiva, un fumetto o altro che sia. Una convinzione, questa, che ha avuto sin da piccola. E sicuramente vivono in lei, diventano parte di lei: a volte si accorge di aver messo degli amici o conoscenti in ciò che crea, involontariamente ed inconsciamente. “Amo interpretare i miei personaggi. Io credo che il lavoro del fumettista sia come quello del regista o dell’attore: se inventi o scrivi un personaggio sei anche, contemporaneamente, un attore in quanto devi immaginare di essere quel personaggio stesso. Per me hanno tutti uguale peso”, precisa Ghermandi. Ed ella, infatti, preferisce le trame corali, senza far primeggiare un solo personaggio. Tanto che, ad esempio, ha difficoltà ad identificare quale sia quello più centrale, poiché non è una cosa calcolata in partenza prima della creazione, ma che scopre ella stessa in itinere; come è accaduto per “Cronache dalla palude”, in cui solamente in un secondo momento ha compreso quale poteva essere quello più neutro. La sua attenzione, infatti, è incentrata sull’umanità intrinseca nella complessità delle relazioni e dei rapporti che crea appositamente per metterla in scena. Secondo lei tutto ciò che ci circonda ha un’anima, un animismo che richiede molta osservazione, molto spirito ed attenzione al dettaglio, molta concentrazione (anche il silenzio per lei è pregnante di significato), per trovare le caratteristiche specifiche di ogni oggetto o persona/personaggio: “mi sento una sorta di burattinaio!”, confessa. E più che al teatro delle marionette siamo di fronte, appunto, ad una situazione di romanzo corale che riprende in maniera preponderante da una delle sue serie tv preferite: Sopranos; “qui, ad esempio, ci sono tantissimi personaggi completamente diversi tra loro, che si intersecano tra di loro con registri diversi e con una certa dose di durezza, cattiveria, imprevedibilità”, ci sottolinea Francesca.

Pluralità e coralità che ritroviamo anche in uno dei suoi ispiratori e maestri: Andrea Pazienza. Di quest’ultimo apprezza ugualmente altri due ingredienti del suo talento artistico: l’ironia, o meglio l’autoironia, e la comicità che deriva da situazioni assurde e paradossali. “Di Andrea Pazienza mi hanno colpito il disegno e l’assurdità delle storie, il lato demenziale, la capacità di raccontare in maniera molto sincera, una sincerità assoluta. Ha scritto storie –spiega Francesca- di ragazzi di una generazione precedente alla nostra, parlando, in maniera comica e con ironia, di problemi quali la droga che nessuno aveva osato affrontare né trattare”. È attraverso questo registro ironico, autoironico e a volte anche un po’sarcastico, che ha modo di ribaltare i toni nel suo racconto, le sue storie affinché vadano al di là della realtà, scovando dietro il livello superficiale per andare a vedere l’umanità nascosta nei personaggi.

Spesso scovata, immaginata, rivelata nell’ispirazione di un attimo; un’illuminazione artistica che occorre bloccare subito, prima che diventi troppo tardi. Il “suo” processo creativo è un percorso complesso, articolato e lunghissimo, fatto di tante piccole tappe da percorrere, senza saltare e senza correre facendo il passo più lungo della gamba, ma imparando a selezionare accuratamente gli elementi importanti, significativi, essenziali al fine del componimento complessivo, valutando bene ciò che tenere, ciò che eliminare e ciò che snellire. Sia dal punto di vista contenutistico, che stilistico e grafico. A tale proposito si è divertita a raccontare un aneddoto sulla creazione di “Cronache dalla palude”: un lavoro molto complesso ottenuto buttando per terra, nel vero senso dell’espressione, le singole tavole per averle tutte vicine e poter vedere visivamente le relazioni tra ciascuna di esse e trovare fisicamente gli spazi per realizzare le armonie. Per far ciò deve essere calma, tranquilla, concentrata e rilassata, anche nel silenzio più assoluto, essere libera da ogni pensiero e preoccupazione, avere la mente sgombera da agitazioni, anche grazie all’aiuto di musica classica tipo Mozart, come fa di recente. Una condizione molto difficile da avere, ma necessaria poiché “il blocco creativo è la cosa più orribile che ci possa essere per un’artista” ed è molto deprimente: a volte si arriva a pensare di non riuscire a disegnare più, come le è già capitato, confessa Francesca. Invece “l’ispirazione la devi andare a cercare e non aspettare che giunga da sola. Per questo lo scambiarsi idee tra disegnatori sarebbe bello”, ammette. E, soprattutto, si può nascondere anche in “cose banali apparentemente, ma che, se unite a un’altra immagine, che può non avere nulla a che fare con la precedente, può diventare qualcosa di esplosivo; rimescolando si può originale quel ‘binomio perfetto’ di cui parlava Rodari, in un’alchimia straordinaria e spettacolare di stampo futurista”. Un assemblaggio che si basa sull’attimo, poiché ogni storia avrà sempre l’influenza del momento in cui viene creata.

Francesca Ghermandi biografia

Fumettista dagli anni Ottanta ed illustratrice, la linea iniziale della sua trama era simbolo di razionalità, precisione, caratterizzata da una grande pulizia del tratto. Linee ricche, ma senza profondità, né chiaroscuro. Pian piano ha arricchito le sue linee delle mezze tinte, per poi arrivare al colore. L’amore iniziale per la linea chiara negli anni ’80 le viene dall’ispirazione a certi autori della linea francese, quali: Ghester Gould, Floyd Gottfredson, Carl Barks, George McManus, Magnus, Daniel Clows, Charles Burnss. Suoi maestri furono: Andrea Pazienza, Lorenzo Mattotti, Giorgio Carpinteri, Marcello Jori, Igort, Daniele Brolli…e l’amico e compagno di studi giovanili, Enrico Fornaroli; pulizia e nettezza sono le caratteristiche che ne emergono. All’inizio il suo era un disegno muto, senza parole. Dopo un lungo digiuno dalle parole, si è resa conto dell’importanza della parola ed ha incominciato a riscrivere piccoli testi, scritte od onomatopee che davano un ritmo ai fumetti. Capendo che non poteva tener scisse testo, parole e immagini, a cui dare voce e ritmo.

Illustratrice per testate quali Internazionale e Il manifesto aveva inizialmente la tendenza ad essere molto narrativa, non avendo, così, un impatto visivo. Poi capisce che un articolo ha diversi modi di essere letto e raccontato. Così ha iniziato a leggerli con attenzione e concentrazione appuntandosi affianco un disegno anche di pochi centimetri, che scaturisce dalla prima impressione che riceve, qualsiasi essa sia. Dopo sviluppa tutti questi spunti che ha avuto dalla lettura, facendo anche molte variazioni ed arrivando ad impiegare anche due giorni di lavoro, dando origine a un prodotto complesso che racchiuda tutte le sensazione diffuse dall’articolo.

di Barbara Conti